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VALGUARNERA
A FINE OTTOCENTO E LA RIVOLTA POPOLARE DEL 93
Assente l’aristocrazia, la classe
dominante di un paese dell’interno della Sicilia sul finire dell’Ottocento
è composta da un ristretto numero di ricchi proprietari terrieri e di grossi
gabelloti. Si tratta, come è ben noto, di una borghesia campagnola che già nel
Settecento aveva cominciato a contendere il possesso della proprietà terriera
ad un’aristocrazia economicamente vacillante che dal bisogno di denaro liquido
era stata spinta a svendere le proprie terre.
1. La
borghesia terriera dopo l’abolizione della feudalità
Alla fine dell’Ottocento, il
processo di formazione della proprietà borghese era giunto a compimento e le
vie di questa formazione erano state l’enfiteusi (cessione per lungo tempo o in perpetuo), la gabella, il commercio
del grano, l’usura, il dominio dei municipi, ecc. Con tali mezzi e a spese,
oltre che della proprietà feudale, dei beni demaniali ed ecclesiastici ed a
opera di quel cannibalismo borghese che, dall’Unità in poi, faceva diminuire
il numero dei proprietari, erano andati accumulandosi nelle mani di poche
famiglie consistenti patrimoni.
E’ risaputo che questa
borghesia di nuova formazione, oltre alla terra, dai “gattopardi” che
l’avevano preceduta, aveva ereditato anche la mentalità che la spingeva
spesso a esercitare con durezza e disprezzo il suo dominio sulle classi
subalterne. Essendo la posizione sociale e il prestigio personale legati al
possesso della terra, il nuovo ceto dei «civili» s’industria, come nei
romanzi di Giovanni Verga, ad accumulare «roba» per raggiungere il potere, il
senso di sicurezza e di stabilità che la possessione della terra gli dava.
Le sue attività più redditizie
permangono quelle parassitarie del periodo feudale. Piuttosto che investendo i
suoi capitali per operare trasformazioni produttive, il «civile» cerca di
raggiungere il suo scopo smungendo gli affittuari e i braccianti, sottraendo
piuttosto che creando, vivendo di rendita più che di profitto. Si tratta,
insomma, di una borghesia che, mancando oltre che di spirito di iniziativa anche
di larghezza di idee, è incapace di farsi portatrice degli elementi progressivi
propri della borghesia capitalistica di altri paesi.
Un funzionario statale che in
quegli anni operava in Sicilia, Giuseppe Alongi, ci dà, in un’indagine
sociologica, un’immediata descrizione di tale ceto sul finire dell’Ottocento
in un comune dell’interno dell’isola:
«I proprietari terrieri sono persone influentissime, sfruttano tutte le
cariche amministrative, hanno vaste clientele di elettori, per cui si attirano
necessariamente i riguardi del deputato, che con loro forma esclusivamente la
classe politica. Il gabelloto ha pretese baronali; quindi vive isolato da tutte
le altre classi sociali, che disprezza; è quasi sempre ignorante, presuntuoso,
dispotico, violento. E’ convinto che i funzionari del Governo siano destinati
esclusivamente alla soddisfazione dei suoi bisogni e delle sue vendettuzze».
E, dando una pittoresca
immagine del rientro dalla campagna di questi proprietari, aggiunge:
«Rammento sempre di aver veduto molti di questi signori di montagna
tornare dal feudo seguiti da una mezza dozzina di campieri, tutti a cavallo, con
stivali, scapolari e fucili sulle ginocchia, entrare al gran galoppo in paese
come una banda armata»
Il vertice della stratificazione
sociale del comune dell’interno da noi preso in considerazione (comune che
contava circa 13.000 abitanti ed in cui gli analfabeti superavano il 90%)
“Prato
Gaetano di Antonino, possidente, da Valguarnera. È il sindaco del Comune, e quantunque fornito di laurea in giurisprudenza
non ha una cultura profonda. Non esercita la professione perché è molto ricco,
il più ricco del paese [..]”
Se il lavoro fisico viene generalmente
disprezzato in quanto inferiore, in questo caso il possidente vuole essere
libero da ogni legame con il lavoro, sia pure quello di una professione liberale
quale l’avvocatura. Di idee limpidamente reazionarie, il sindaco di
Valguarnera di quegli anni gode del vasto potere che gli deriva dal grosso
patrimonio terriero. Egli, potendo concedere o negare una mezzadria o una
giornata di lavoro, è l’arbitro della vita di masse di contadini. Inoltre,
non diversamente dall’antico feudatario, la sua ricchezza gli consente di
esercitare una politica paternalistica e di cercare di dare di sé un’immagine
contrassegnata dalla generosità:
«[...] Di condotta illibata, molto
munifico verso i poveri, ha principi puramente conservatori e vorrebbe financo
la Casa Savoia governare senza Parlamento. Ha moltissima influenza sulle masse
che cerca sempre guidare al rispetto delle leggi ed al mantenimento
dell’ordine; questa sua influenza però non la può svolgere in altri comuni
della Provincia».
Questo è quanto del sindaco Prato
scriveva la polizia. Di diverso avviso, invece, era il deputato socialista De
Felice che volle effettuare un’inchiesta sui fatti di Valguarnera. Colpito
dall’“odio invincibile” che il Prato ispirava alla popolazione, interrogò
a tale soggetto i contadini valguarneresi imprigionati a Caltanissetta, un
consigliere provinciale ed “alcuni borghesi meno sospetti di
favorire la causa dei cosiddetti ribelli”.
“Dal complesso delle risposte”,
scrive De Felice, “mi risulta che il sig. Prato, sindaco di Valguarnera, un
uomo sulla cinquantina, è piuttosto caparbio, astioso, superbo, per quanto i
miei interrogati non lo credano del tutto cattivo. Come sindaco è qualche volta
ingiusto: sgrava di tasse i suoi fidati, aggrava gli altri, specialmente
lavoratori. Come uomo è poco tenero dei suoi contadini; li tratta peggio degli
altri e in rapporto al salario e in rapporto ai viveri. Possedendo molte terre,
quindi, è molto odiato”.
Per i contadini interrogati, il Prato
era «più nero del diavolo»:
«non solo per la partigianeria che dimostrava
nell’amministrazione del comune, nell’imposizione delle tasse, nelle sue
relazioni con gli amministrati; ma anche perché trattava male i contadini, non
aveva una sola parola di commiserazione per loro, li guardava con occhio di
disprezzo. Quando doveva dare loro del frumento, vi univa terra ed altre
porcherie: tutto poi pesava per frumento buono! Il vino che era tenuto a dare
durante il lavoro era guasto, anzi aceto addirittura. E poi dava 2/3 di acqua,
un terzo di vino. E lo dava per vino buono».
Quanto viene riferito al deputato
socialista, nel vivo della polemica contro il sindaco, tende a fare emergere
l’immagine di un padrone «cattivo», a spiegare o a giustificare
l’accanimento con cui il popolo aveva devastato pochi giorni prima il suo
palazzo. L’arroganza, la partigianeria, il disprezzo per i lavoratori sono,
però, tratti estensibili a un’intera classe cui andavano «baciolemani» non
sempre metaforici e il cui concetto di libertà non era in molti casi dissimile
da quello del proprietario regalpetrese di cui parla Leonardo Sciascia: la
libertà di prendere a calci i contadini.
Un’altra delle «schede» compilate
dalla polizia è dedicata a don Filippo Prato, un personaggio che, pur essendo
imparentato con il precedente, costituisce per così dire una variante
cronologicamente anteriore della figura del proprietario terriero. La persona in
questione, pur essendo assurta alle massime posizioni di ricchezza e di potere
(era già stato sindaco del comune e, in un certo senso, continuava ancora a
esserlo), esercita una precisa funzione nel sistema subculturale popolare. La
sua ascesa sociale, cioè, si è affermata nel campo economico e non ancora in
quello ideologico-culturale. In questo senso assimilabile al gabelloto, figura
di borghese in ascesa che non ha tagliato i ponti con la classe sociale di
provenienza, esercitando direttamente su di essa l’autorità che gli viene
dall’essere spesso un «uomo di rispetto» e sapendo difendere la sua
superiorità gerarchica anche con «mezzi persuasivi», don Filippo Prato incute
rispetto ai ceti popolari grazie al suo «buon senso» e al «carattere
conciliante» che gli consente di regolare le questioni d’onore, di appianare
le liti e i contrasti d’affari senza ricorrere — è lecito supporre — alle
autorità statali.
«Prato
Filippo fu Giuseppe, possidente da Valguarnera. E assessore
comunale. ma non ha nessuna cultura letteraria. Invece è fornito di molto buon
senso ed ha idee chiare e precise. È di
ottima condotta morale e politica e per la sua splendida posizione finanziaria
ha moltissima influenza sulle masse, influenza che gli proviene dal suo
carattere conciliante ed in moltissimi casi riesce a comporre i privati dissidi
tra contadini e zolfatai. Ciononostante anche la sua casa venne incendiata e
saccheggiata il 25 dicembre 1893. Non può svolgere la sua influenza in altro
comuni della Provincia. È
conservatore perfetto».
Una terza scheda descrive il barone
Giuseppe Boscarini, consigliere comunale legato
al gruppo di opposizione municipale. Da rilevare l’attaccamento al
titolo nobiliare (di non limpida acquisizione secondo la polizia), tipico
della borghesia terriera, che è un ulteriore indizio dei vincoli ideologici che
la legavano all’aristocrazia e quindi della precarietà di una autonoma
ideologia di classe.
“Barone
Giuseppe Boscarini, da Valguarnera. Non è un
nobile nel vero senso della parola perché il titolo di barone gli provenne da
un feudo che comprò in provincia di Palermo Si può dire un ricco possidente. E’
di cultura piuttosto limitata anzichenò […]”
Il rapporto prosegue mettendo in
evidenza il connubio tra la borghesia terriera e i “malfattori” che
infestavano le campagne. Questi fenomeni erano così diffusi che, davanti
all’accusa di «manutengolismo», i proprietari si difendevano facendo
osservare che “nelle condizioni in cui ormai si viveva nelle campagne, specie
nelle zone interne dell’isola, non i proprietari proteggevano i
“malfattori”, ma costoro proteggevano quelli».
2.
Mafia, brigantaggio e latifondo
E’ stato
sostenuto che alla miseria il contadino siciliano poteva reagire con la
rassegnazione o con la ribellione; se sceglieva quest’ultima via, le forme
classiche di ribellione erano il brigantaggio e il comportamento mafioso. Una
terza soluzione cominciava a essere l’adesione alle organizzazioni socialiste
e in questo senso De Felice attribuiva ai Fasci una funzione d’antidoto alla
delinquenza. Certo è, per dirla con Emanuele Macaluso, che la mafia era
“parte integrante e integrata del sistema di potere locale; strumento dei ceti
dirigenti per il loro dominio di classe”, come vedremo continuando a leggere
la scheda del Boscarini che, proteggendo i latitanti, finisce per esserne
protetto a sua volta. Tutto questo gli consente di accrescere il suo potere sui
contadini e il suo prestigio sui mafiosi:
“[…]
ha il difetto della grande maggioranza dei proprietari dell’isola, cioè
quello di non mettere mai le autorità in condizione di purgare le campagne dai
malfattori, dappoiché risulta che il latitante Bruno Michele passò gran tempo
nella sua fattoria in ex feudo Conazzo. Anche l’altro latitante Muratore
Antonio bazzicò parecchio tempo in detto ex feudo. Al Sig. Barone quando gli si
domandavano notizie dei cennati latitanti rispondeva sempre di non saper niente.
Per questa sua omertà il Boscarini ha molto ascendente sulle masse dei
contadini e dei mafiosi; la sua influenza però non la può svolgere in altri
paesi della Provincia. Egli professa principi costituzionali”.
Il ceto medio che, nella
stratificazione sociale di un paese siciliano dell’epoca viene subito dopo la
borghesia terriera di cui abbiamo parlato, si suddivide in due strati, quello
dei «cappeddi» e quello che potremmo chiamare produttivo. Un discorso a parte
va fatto per il clero.
3. Due «cappeddi»
I «cappeddi», che con la
borghesia terriera formava quello che veniva chiamato il ceto dei «civili» o
dei «galantuomini», erano medici, farmacisti, avvocati, maestri, impiegati
comunali e delle amministrazioni delle miniere, proprietari terrieri non
coltivatori, gabelloti ecc. Ai “galantuomini” era riservato il circolo o
casino dei “civili”. È al di là delle dorate porte di questo circolo,
rigorosamente chiuso agli altri ceti sociali, che i «grandi di Spagna disuso»
(come trent’anni dopo li chiamerà Fracesco Lanza in una sferzante pagina di
satira di costume dedicata al circolo dei «civili» di Valguarnera) trascorrono
le loro giornate, giocando a carte, parlando di affari, di donne o di politica.
È lì, prima che in consiglio comunale, che vengono prese le decisioni
amministrative; è lì che il delegato di pubblica sicurezza discute, come
vedremo, dei provvedimenti di polizia da attuare. È su di esso, identificato
come simbolo della borghesia, che si sfogherà l’odio di classe della
popolazione il 25 dicembre 1893.
Le schede della pubblica sicurezza ci
offrono due rappresentanti del ceto dei “cappeddi”. La prima è dedicata al
maestro Lanza, uomo dalla spiccata personalità, ma dalla grama condizione
finanziaria:
“Lanza
Francesco Paolo fu Michele, insegnante elementare da Valguarnera. Quantunque occupa il modesto posto d’insegnante elementare, la sua
cultura è molto superiore al grado che occupa. La sua condizione finanziaria
non è tanto florida, purnondimeno ha molto ascendente sulle masse che vedono in
lui un uomo superiore relativamente a Valguarnera. In forza di questo ascendente
Egli il 25 Dicembre 1893 ebbe il
coraggio di arringare la folla tumultuante per indurla alla calma.
Sventuratamente il veleno del socialismo si era inoculato nelle vene dei
contadini e degli operai e le sue parole non furono ascoltate, e si deve alla
popolarità che gode se in quel frangente non ebbe fatto del male. È di
principi conservatore […]”
L’altro rapporto è dedicato al
dottor Manganaro che, al contrario del sindaco Prato, è dalle condizioni
finanziarie costretto a esercitare la sua professione di medico:
«Manganaro
dottor Vincenzo fu Giuseppe da Valguarnera. È
discreto medico di piccolo comune, ed esercita la professione perché la sua
condizione finanziaria non è tanto florida. Di carattere mite, docile, ma per
contrario è degli avversari più accaniti alla attuale amministrazione comunale
[...]. Nella sua qualità di medico a contatto di tutte le classi sociali gode
di certa influenza nelle masse, ma la sua influenza non può svolgerla in altri
comuni della Provincia. È di principi monarchico-costituzionale».
I ranghi meno elevati del ceto
medio sono formati dai piccoli proprietari coltivatori diretti, detti «massari»
o «borgesi», dagli appaltatori, negozianti, sensali, cottimisti di miniere
ecc.
4. Il clero:
tra blocco agrario e questione contadina
Del clero, quasi sempre di
origine contadina, ma collocabile accanto al ceto dei «civili», l’Alongi
dice:
«Il clero è sempre numeroso, spesso troppo
numeroso, in rapporto ai bisogni religiosi della popolazione. Provenienti per lo
più dal ceto dei borgesi, con quella larva di cultura ad “usum delphini”
che si dà nei seminari clericali, pervertiti dall’orgoglio soddisfatto di
essere usciti dalla massa dei contadini, i preti siciliani si attaccano come
pedagoghi, contabili e consiglieri al ceto dei galantuomini, ne scimmiottano il
contegno da gran signori, il disprezzo delle idee nuove, il rimpianto del tempo
che fu, predicando contro il governo protestante ed usurpatore. Il clero
siciliano (salve sempre le eccezioni lodevoli) è fanatico quanto ignorante, ed
invece di farsi difensore e consigliere del proletariato, da cui è uscito, se
ne fa tirannello».
Le cose non erano, però, così
semplici. Di fronte alle agitazioni contadine dell’autunno del 1893, una parte
del clero aveva assunto una posizione di notevole apertura. Sulla scia delle
direttive pastorali del vescovo di Caltanissetta, le «lodevoli eccezioni», per
dirla con l’Alongi, non mancavano, come nel caso dell’economo della Matrice
di Pietraperzia che — stando alle parole del sindaco di quel paese —
additava dal pulpito i ricchi «all’odio della plebe». Verosimilmente quel
sacerdote, seguendo le indicazioni del vescovo nisseno, aveva reclamato un
maggior rispetto per i lavoratori e auspicato contratti agrari più equi.
Questa nuova sensibilità — stimolata
anche dall’esigenza di affermare una posizione concorrenziale nei confronti
dell’azione che andavano svolgendo i Fasci, nei quali il mondo cattolico
siciliano non vedeva che plebi illuse da ree dottrine e da istigatori malvagi
— era però lungi dall’essere generalizzata. Il grosso del clero aveva
altre posizioni. Continuava, come rilevava l’Alongi, a esser viva la vecchia
polemica contro il «governo usurpatore» e il liberalismo della classe politica
postunitaria, ma la funzione che esso svolgeva lo integrava nella sostanza al
blocco sociale egemonizzato dalla grossa borghesia terriera. A Valguarnera, per
esempio, un sacerdote era membro dell’amministrazione Prato.
In quegli anni, comunque, cominciava ad
emergere quell’orientamento che porterà il clero a farsi carico della
tematica contadina, ad effettuare quel “cambiamento di rotta” con il quale
“la Chiesa rientra nella storia laica e civile”; cui non furono estranee né
l’esplosione dei Fasci, né la crisi agraria di fine secolo, come ha notato il
De Rosa. Le prime casse rurali cattoliche (tra cui quelle di Agira e Nicosia)
sorgeranno infatti nel 1895 e agli inizi del Novecento ne verranno fuori un
po’ dappertutto, nella Sicilia interna. A Valguarnera, la Società rurale
democratica cristiana sarà fondata il 14 giugno 1900
con lo scopo di dare in gabella terre ai soci e di concedere loro prestiti
agevolati in denaro e in natura. L’associazione, nata all’insegna
dell’interclassismo cattolico, raggrupperà un buon numero di «massari» e
svolgerà una funzione protettiva nei
confronti di questo ceto.
All’epoca dei Fasci, comunque, il
cambiamento di rotta non ha ancora avuto luogo. Il movimento cattolico
languisce. Nella diocesi di Piazza Armerina “nulla si è fatto” e in
quella di Nicosia «di movimento cattolico non c’é neppure ombra», costata
l’inviato dell’Opera dei congressi. L’influenza esercitata dalla Chiesa
sulle masse lavoratrici è decrescente e, per quanto riguarda il proletariato
delle miniere, si può osservare un processo di scristianizzazione in atto.
5. La
base della piramide: i «birritti».
I «birritti», come in opposizione ai
«cappeddi» venivano chiamati i ceti collocati nel basso della stratificazione
sociale, non avevano in grande maggioranza diritto al voto. La legge elettorale
del 1890 aveva esteso questo diritto ad appena il 7 per cento della popolazione
italiana, escludendone i non abbienti, gli illetterati e le donne. A Valguarnera
la lista elettorale del 1890 comprendeva 717 elettori. L’alta incidenza delle
categorie escluse dal voto vi abbassava la percentuale a circa il 5,5
per cento della popolazione.
Tale è, grosso modo, la piramide della
stratificazione sociale di un paese dell’interno della Sicilia alla fine
dell’Ottocento. La schematicità del grafico impone, però, alcune
precisazioni relative all’organizzazione del lavoro nelle campagne, dove si
coltiva quasi esclusivamente il frumento con il sistema della rotazione
triennale.
6. L
‘organizzazione del lavoro nelle campagne
Nonostante questo, i contadini
preferivano il contratto di mezzadria alla concessione a terratico,
consistente in un compenso fisso e stabilito in una entità di grano variante
dalle 2 alle 6 salme, a seconda della qualità della terra e della forza
contrattuale dei contraenti, per ogni salma di terra presa in fitto. Tale
preferenza evidenziava le condizioni di debolezza contrattuale e di povertà del
contadino. Il terratico, rispetto alla mezzadria, rappresenta infatti una
forma di contratto più avanzata sul terreno dei rapporti capitalistici, ma
supponeva un minimo di autonomia economica da parte del contadino, che gli
permettesse di far fronte agli anni di cattivo raccolto. Le “malannate”,
disastrose nel caso di contratto a mezzadria, divenivano mortali caso del «terraggio»,
dovendo — in ogni caso — il contadino versare la quota di affitto stabilita
in precedenza; infatti, “essendo di solito il tasso di grano del concedente
appena tollerabile, dati anche i pochi mezzi di lavoro del colono, nelle
annate di buon raccolto, bastava solo un anno di cattivo raccolto perché il
terratichiere, obbligato per contratto a corrispondere la misura stabilita, si
trovasse nelle condizioni di essere costretto a vendere la mula e la
casupola” (S. F. Romano).
Il più delle volte, poi, oltre
che per l’anticipazione della semenza, il contadino era costretto a ricorrere
al proprietario per il «soccorso» in grano che gli dava modo di vivere assieme
alla famiglia fino al prossimo raccolto. Queste anticipazioni rappresentavano
delle forme d’usura che non mancavano di indignare gli studiosi dell’epoca.
Il Cavalieri, per esempio, denunciava — oltre alle «angherie e i frutti
usurai» connessi in tali consuetudini — «la rapacità spiegata nei soccorsi
che, mentre son dati con qualità scadentissime, si vogliono restituiti con
qualità ottime»; proprio come i contadini valguarneresi denunciavano nel
caso del sindaco Prato. I «soccorsi», in sostanza contribuivano a favorire
l’accentramento di un ingente potere nelle mani di pochi borghesi, ponendo il
contadino in un rapporto di subordinazione e di dominio diretto dal momento
che «costretto ad accettare che la restituzione di questo soccorso
avvenisse ad un tasso elevato, il colono si trovava da un lato alla
dipendenza diretta e personale del proprietario, e dall’altro impigliato in
una catena di debiti insolvibili data la limitatezza dei suoi mezzi».
Il
possesso dei mezzi di produzione determinava delle ulteriori suddivisioni tra
contadini o «villani», come venivano chiamati gli strati di popolazione
legati direttamente al processo di produzione delle campagne. Chi possedeva due
muli e un aratro poteva prendere a mezzadria delle più o meno vaste
estensioni di terra, ancora maggiori nel caso in cui si disponesse della
possibilità di assumere dei braccianti nei periodi richiesti dalla produzione.
Chi non possedeva altro che le proprie braccia e una zappa non poteva prendere
in affitto che un appezzamento di 2 o 3 salme.
I piccoli proprietari, per la gran parte nzuarii (cioè censualisti, beneficiari di un contratto di
enfiteusi), lavoravano direttamente, con l’ausilio di garzoni o di braccianti,
sia la terra di loro proprietà sia, come spesso accadeva, quella presa in
affitto a mezzadria. I mezzadri poveri, a loro volta, spesso prestavano la
loro opera come braccianti a giornata («jurnatara»).
I lavoratori della terra, che
costituivano la maggioranza della popolazione, rappresentavano quindi un vasto
strato fino al proletariato. Tali suddivisioni evidenziavano l’arretratezza
dell’organizzazione del lavoro nelle campagne e il ruolo della rendita
parassitaria nei rapporti di proprietà e di produzione. Questa arretratezza,
che pesava duramente sui contadini, venne individuata nel noto congresso
organizzato dai Fasci a Corleone le cui rivendicazioni «avevano un contenuto
democratico e miravano in sostanza a liquidare i residui feudali» dalla
campagna siciliana. Mediante i patti agrari strappati con gli scioperi avvenuti
nella Sicilia occidentale nell’autunno del ‘93 i contadini ottenevano
l’abolizione del «terraggio», il miglioramento dei contratti di mezzadria e
imponevano il principio della contrattazione collettiva.
7.
Le miniere di zolfo tra crisi e tensione
Il
numero degli scioperi aumentò vistosamente. Gli obiettivi era quelli
dell’abolizione nel cottimo e del ripristino della vecchia unità di misura
(la “regola”) che era stata modificata a detrimento dei lavoratori. La
crisi, tuttavia, colpisce tutto il mondo delle miniere e non soltanto gli
zolfatai. Si veda questa lettera-petizione inviata a settembre al prefetto di
Caltanissetta da un centinaio di valguarneresi che lavoravano alla miniera
Gallizzi:
“I qui sottoscritti disgraziati
domandano e umiliano alla S.V. Ill.a quando segue. Fin da quattro anni addietro
che i ricorrenti lavorano sotto la ditta G. Labretoigne (francese) amministrato
costui dal vero birbante V. Labiso da Terranova di Sicilia i quali si sono
cooperati tanto a far arrivare i poveri lavoranti alla disposizione di
abbandonare la rispettive mogli e figli nel laberinto dell’inferno che é la
fame, e perdersi per sempre rinunziando alla libertà ed ai diritti civili
[…]”
Documento eloquente, dominato dalla
disperazione e dallo spettro dell’atto inconsulto.
Mancava nella Valguarnera di
quegli anni un’organizzazione cui zolfatai
e contadini potessero fare riferimento. I tentativi di costituirvi una sezione
del Fasci (che fungevano contemporaneamente da organizzazione politica e
sindacale) effettuati dal barbiere Gaetano Ingrassia falliscono nel giugno del
1893 a causa delle pressioni esercitate congiuntamente su di lui dai borghesi e
dalla polizia.
Restano quei focolai di
agitazione tenuti vivi da Michelangelo Di Dio, detto “Cottonaro” e da
Gaetano Profeta, detto “Il Cativo”. “Venne un momento – fu affermato –
in cui i contadini (e i minatori, ndr)
si guardarono negli occhi e compresero che quel movimento schiacciante della
crisi non poteva essere fermato senza una resistenza collettiva. Bisognava non
lasciarsi mangiare uno ad uno, e divorandosi a vicenda. Tutti insieme potevano
imporre condizioni più umane. E fecero i Fasci”. A Valguarnera non si riuscì
a creare un Fascio dei lavoratori, ma, come affermerà il Magno, “il veleno
del socialismo si era inoculato nelle vene dei contadini e degli operai”.
E ancora vivo il ricordo del fatto che
nella mattina del 25 dicembre 1893 sia
giunto a Valguarnera, travestito da frate, un emissario di De Felice,
proveniente da Catania. Il falso frate andava distribuendo clandestinamente del
materiale di propaganda socialista a individui fidati che avrebbero dovuto
leggerlo pubblicamente e simultaneamente in vari comuni dell’isola il 1°
gennaio. A Valguarnera la scelta era caduta su Gaetano Profeta.
1. La linea della mobilitazione di
massa prende il sopravvento
La direttiva della manifestazione di
Capodanno trova riscontro nel fatto che proprio per quella data si stava
preparando una grande dimostrazione a Palermo. L’accentuazione della lotta di massa era, infatti, la
linea che in quei giorni andava prevalendo tra i dirigenti dei Fasci.
Verosimilmente, il 10 gennaio 1894 si voleva dare dimostrazione delle capacità
di mobilitazione che il movimento
aveva raggiunto nell’isola.
E' noto come di fronte all’accrescersi
delle agitazioni popolari, da un lato, ed alla costituzione del governo Crispi,
dall’altro, il gruppo dirigente avesse accentuato le sue divisioni. Colajanni,
che giudicava positivamente l’avvento di Crispi al potere, cercava di far
opera di mediazione tra il nuovo governo e i socialisti isolani. Bosco riteneva
inattuale la prospettiva insurrezionale e cercava di scongiurare l’innesco
della dinamica della repressione. De Felice, come ricorderà in seguito un suo
stretto collaboratore, “voleva approfittare di quei momenti di febbrile
entusiasmo per una trasformazione violenta dell’ordinamento dello Stato”.
In realtà, dietro il gran parlare di
rivoluzione che De Felice faceva, non vi era alcun progetto né alcun serio
tentativo. E’ vero che la voce di «una generale insurrezione nell’isola»
per il 10 gennaio 1894 era probabilmente circolata nel comitato centrale dei
Fasci tenuto ai primi di novembre, ma era rientrata a causa dell’energica
opposizione del Bosco. A dicembre, i disegni insurrezionali esistevano solo
nei timori di Crispi, alimentati dalle «fanfaronate da rivoluzionario di
vecchia scuola», come Antonio Labriola definiva certi atteggiamenti di De
Felice.
Durante la fase cruciale della vicenda
dei Fasci, il gruppo dirigente era dunque diviso sull’atteggiamento da
assumere. In attesa delle decisioni che sarebbero dovute essere prese nel corso
della riunione del comitato centrale indetto per il 3 gennaio, l’iniziativa
sfuggì dalle mani del Bosco per essere di fatto assunta dal De Felice.
C’erano stati i nove morti di Giardinello e la repressione armata della
manifestazione di Monreale; c’era stato il cambio di guardia a Roma che,
secondo l’analisi prevalente tra i dirigenti dei Fasci, sopprimeva ogni
margine di mediazione politica; il malcontento popolare cresceva. Si trattava di
estendere la protesta che qua e là spontaneamente si manifestava, di
intensificare la mobilitazione delle masse organizzate e non organizzate
dell’isola, di indirizzarla contro il nuovo governo Crispi.
Si
giocava pericolosamente col fuoco. Da un lato, infatti, era risaputo che le
classi abbienti, unitamente ai funzionari di polizia, andavano in quei giorni
alla ricerca di ogni episodio che potesse far scattare il meccanismo della
repressione per «farla finita coi Fasci»; dall’altro, non si poteva ignorare
la debolezza politica e organizzativa del movimento in paesi come Valguarnera
e quindi l’estrema difficoltà di gestire una manifestazione di piazza in un
momento in cui al malcontento popolare bastava ben poco per tramutarsi in uno di
quei movimenti tumultuosi ed istintivi di cui era costellata la storia delle
classi subalterne siciliane.
1.«Quest’anno
il Bambino nascerà con la camicia rossa!»
In effetti, l’emissario di De Felice che con fare
cospirativo giungeva a Valguarnera il 25 dicembre 1893, vi trovava un paese in
fermento, pronto a esplodere alla prima occasione. La crisi delle campagne e
delle miniere aveva fatto toccare dei livelli di miseria che — a memoria
d’uomo — non si erano mai visti. Molte famiglie contadine erano ridotte a
sfamarsi di erba e di pane nero. Decine di zolfatai da mesi non ricevevano il
salario. L’indignazione contro le autorità municipali aveva raggiunto «le
proporzioni più alte», come diceva Colajanni, essendosi ingigantita dopo
l’arrivo in paese del nuovo delegato di pubblica sicurezza Avellone che, col
suo atteggiamento prevaricatore e repressivo, sembrava essere l’uomo di
fiducia della borghesia al potere piuttosto che un imparziale funzionario
governativo. Inoltre, il «partito» d’opposizione soffiava da mesi sul
fuoco dell’“odio profondo" che il popolo nutriva per il clan dei
Prato.
Siamo nella fase di transizione tra lo schema 1 (situazione
normale nella Valguarnera di fine Ottocento) al 2 (rottura
degli equilibri ed esplosione sociale). Nel primo si registrano rapporti
conflittuali (freccia piena) tra i due clan borghesi al potere così come -
assieme a rapporti clientelari (freccia spezzata) - tra le classi popolari e la
borghesia nel suo complesso. Nel secondo, quando gli equilibri si rompono e la
conflittualità esce dallo stato latente, l’odio delle classi popolari si
riversa piuttosto contro la borghesia al potere (Clan A) che contro
la borghesia in quanto tale.
Notava Antonio di Sangiuliano
che i proprietari terrieri dell’isola non vedevano «altra àncora di salute
che nel rigore della repressione, nel potere arbitrario del governo o de’ suoi
funzionari», nella limitazione delle libertà personali e politiche. Lo stato
d’animo della popolazione, davanti all’atteggiamento di aperta ostilità
delle classi dirigenti era di «irritazione e di risentimento», come scriveva
Colajanni, che vedeva fallire i suoi tentativi di mediazione. I lavoratori
intuivano di essere «le vittime designate di un’imminente repressione» per
cui «l’odio di classe ch’era vivo ingigantì; e ad ingigantirlo», come
avveniva a Valguarnera, “contribuirono le notizie trasmesse oralmente o per
mezzo dei giornali da paese a paese”. Il timore della repressione e la
sensazione dell’ostilità dello Stato fecero sì che «negli animi dei
popolani si ribadì incrollabilmente la credenza che non si poteva e non si
doveva sperare giustizia dal governo».
Con questo stato d’animo si
arrivò al mese di dicembre, quando «la passione prese il sopravvento», quando
s’intravvide la speranza di ottenere miglioramenti «mostrando i denti»,
quando si pervenne - secondo Colajanni - a una vera anarchia politica e morale»,
nel senso che in molti comuni - e tra questi Valguarnera - la tensione non era
incanalata politicamente, che l’esigenza della vendetta e della protesta non
trovava espressione più matura. «L’attività politica e pedagogica dei
dirigenti dei Fasci fu volta a dare forma civile, a incanalare l’ostilità o
la rivolta contadina contro il mondo dei “cappeddi”, a esorcizzarla dalle
sue forme più tristi e disperate». A Vaiguarnera ciò non era avvenuto; né
De Felice né Colajanni avevano saputo o potuto esercitare tale funzione. Nel
paese, i «Cottonaro» e i Profeta mostravano tutta la loro debolezza. Essi
infatti agitavano — certo coraggiosamente — i problemi della popolazione
all’interno della Società dei zappatori
o della Cooperativa di consumo, ma
— benché ispirata dalla propaganda socialista — la loro azione non
riusciva a far uscire dallo spontaneismo l’esigenza di protagonismo che le
masse andavano manifestando, a dare una prospettiva politica a un movimento di
cui andava delineandosi il carattere antiborghese e anticapitalistico. Forse
anche a Valguarnera, come altrove in Sicilia, quel giorno di Natale circolava la
voce che «quest’anno il Bambino nascerà con la camicia rossa», che era
giunto il momento della vendetta popolare contro i «civili» del paese e, nel
contempo, quello della giustizia e della libertà.
3.
La manifestazione
La notizia che un emissario di De
Felice fosse giunto da Catania e avesse portato a Gaetano Profeta del materiale
di propaganda si era subito sparsa per il paese. Il «Cottonaro», all’ora di
pranzo, andò dal Profeta a chiedergli quel materiale, dicendo che tra il popolo
serpeggiava la volontà di effettuare quel giorno una manifestazione di protesta
e che la lettura pubblica, in piazza, di quei giornali poteva servire allo
scopo. Profeta face presente la direttiva della data del 10 gennaio, ma
davanti alle insistenze del compagno, consegnò il materiale.
Dall’altro lato si trova «la folla
dei contadini, degli artigiani, della gente del popolo che si agita chiedendo un
sollievo alle proprie miserie o un atto di giustizia, e dalla quale emergono
talune figure, che tentano in modo ancora malcerto di sollevarsi contro tutto
questo, sforzandosi di farlo in una forma diversa dalla rivolta tradizionale».
Rispetto al prototipo delle classi subalterne protagoniste dei tumulti che
Romano propone, a Valguarnera c’è da aggiungere la forte presenza della
componente zolfataia; il resto è immutato. Mancano però inoltre, fra gli
attori, quei soldati che in tanti comuni dell’isola spararono sui dimostranti
inermi; assenza questa che evitò che anche a Valguarnera fosse consumata una
strage.
Salito su di una panchina di pietra, il
«Cottonaro» comincia a parlare a una folla che va aumentando fino a
raggiungere le mille persone. Questo «popolano di nessuna cultura e di nessuna
elevatezza, ma efficacissimo nel toccare certe corde assai sensibili
dell’animo del popolo» esponeva, secondo il Magno, «un nuovo decalogo a base
di odio e di avversione ai ricchi, e suggerendo la divisione delle terre». Era
il «Decalogo dei Socialisti», pubblicato su uno dei giornali arrivati la
mattina, che il «Cottonaro», come riferisce De Felice, «leggeva e spiegava
con fede d’apostolo». Si trattava di un discorso che fu qualificato come «eccitante
la popolazione alla rivolta contro autorità e governo» dal prefetto.
In realtà, sembra che il proposito del
Di Dio fosse quello di effettuare una manifestazione di protesta, una prova di
forza tinta con i colori del socialismo contro le autorità locali. È così,
d’altronde, che queste interpretano la cosa. Dopo un attimo di sorpresa per
quell’insolenza, la sfida popolare viene accolta. Due delle personalità più
in vista del gruppo al potere, don Filippo Prato e il maestro Lanza, che
assistevano alla scena da un angolo della piazza, invitano con un gesto il
delegato a far smettere l’improvvisato oratore. L’«energico e fidato»
funzionario di polizia esegue immediatamente gli ordini. Così De Felice
descrive la scena:
«Ad un tratto, giunse il
delegato e proibì quella lettura. — Perché? — osservò il Cottonaro. —
Perché io voglio così rispose il delegato. — Vuole così? E la libertà...?
— La libertà! La libertà! E, visto che il Cottonaro insisteva su questo
suo diritto, con modi bruschi lo dichiara in arresto, lo afferra per un braccio,
tenta di trascinarlo in caserma. I contadini presenti s’interpongono, ma egli
li respinge; pregano, ma egli li disprezza; scongiurano, ma egli è sordo a
tutte le esortazioni. L’indignazione sale mano a mano. Si sentono dei fremiti.
Si grida: Lasciatelo! Il grido diventa urlo. Il delegato impallidisce, ma non
lascia l’arrestato. Corrono due carabinieri, l’agguantano essi pure, lo
trascinano lo malmenano».
4.
La liberazione de/Di Dio e l’assalto alla caserma. Devastazioni e
saccheggi
La caserma dei carabinieri in cui stava
per essere condotto l’arrestato era abbastanza lontana dalla piazza,
trovandosi nel vecchio castello dei principi Valguarnera. La folla vuole
liberare il suo compagno, ma sulle prime non osa; segue a una certa distanza il
gruppo formato dall’Avellone, dal «Cottonaro» e dai carabinieri. Racconta
De Felice:
«La rabbia si legge nel volto di tutti i presenti,
l’urlo si fa colossale, la tempesta si avvicina; comincia qualche movimento,
si avverte qualche urto, vola qualche sasso. I carabinieri sono diventati
furibondi anch’essi ma quando l’urto assume le proporzioni di una corrente
che travolge e trascina, ed il popolo grida: lascia!
lascia! e si slancia e strappa l’arrestato dalle mani dei carabinieri,
questi lasciano il Cottonaro, tirano le rivoltelle, fanno fuoco e scappano. Il
delegato si era già eroicamente... squagliato».
Il «Cottonaro», ormai libero, fugge a
piedi a Enna a cercare rifugio e consiglio presso Napoleone Colajanni. Prima di
partire, invita la folla alla calma, ma la gente è eccitata, forse dalla «facile
vittoria», come pensa il Magno, o forse dai colpi tirati in aria dai
carabinieri, come sostiene il De Felice. Nella confusione, molti non sanno che
l’arrestato è fuggito. Ormai “il popolo
è ammutinato” scriverà un giornalista: «s’erano armati anche i giovanetti
e le donne avevano piene di pietre i grembiali». Si sente che l’ora della
vendetta
popolare è scoccata. L’arresto del Di Dio non era stato che l’ultimo anello
di quel «fatale concatenamento di episodi, di provocazioni e di reazioni» di
cui parlava Colajanni per giustificare «la parte popolare anche là dove
trascese».
Il tafferuglio, durante il quale il «Cottonaro»
è liberato e l’Avellone buttato a terra, avviene in piazza Marotta, a due
passi dalla caserma, dove i tre carabinieri corrono precipitosamante a
rifugiarsi. Sempre De Felice:
«La folla, fuori di sé, assedia la caserma; vuol
prenderla d’assalto, lancia sassi alle finestre, da cui i carabinieri tirano
diversi colpi di carabina; tenta, con travi, di sfondare la porta. È un momento
difficile. I carabinieri non sono che quattro. Guai se li prendono! Ma una voce
si leva in mezzo ai contadini furenti: Niente
sangue! Niente sangue! E quella fiumana di popolo leva l’assedio alla
caserma e corre disperata pel paese”
Il corrispondente da Valguarnera del «Giornale
di Sicilia», testimone oculare degli avvenimenti, così racconta i fatti che
seguirono:
«La folla discese nella piazza del Municipio, si
munì di petrolio, rubandolo a viva forza nelle più vicine botteghe dei
rivenditori, ed incominciò a dare l’assalto al Palazzo Comunale. Il maestro
Lanza, fiducioso nella sua parola, che spesso è riuscito a calmare le ire dei
tumultuanti, salì coraggiosamente su di una scala a pioli e cominciò ad
arringare, a scongiurare, perché smettessero le distruzioni da vandali.
Inutile; poco mancò che non si scagliassero contro di lui.
Il pretore, forse perché scambiato per
il delegato o forse perché cercava di indurre i dimostranti alla calma, si
buscava qualche legnata. Don Filippo Prato, a un popolano che gridava «Abbiamo
fame», rispondeva con disprezzo «Andate a mangiare pale di fichidindia!».
I «civili» erano fuggiti nelle loro
case, abbandonando il loro circolo. Mentre si dava l’assalto al municipio,
qualcuno «appiccò il fuoco ai mobili del Casino dei
Civili, le cui aperture sono immediatamente appresso al portone di entrata del
Palazzo Comunale. Dal Casino tutti erano usciti e quando il cameriere aveva
chiuse le porte il fuoco divampava nell’interno, ed il signor Ludovico Litteri
nacosto in un armadio rischiò di morire abbruciato. Si diede coraggio e trovò
modo di uscire, ma all’uscita incontrò resistenza in quelli di fuori.
Fortunatamente riuscì a persuaderli che era dei loro e con loro, e la vita gli
fu salva. Il portone intanto del palazzo comunale perdeva troppo tempo a
consumarsi per aprire un varco, e resisteva ai colpi d’accetta. Spuntò una
scala, e da un semicerchio libero, che trovasi nel mezzo del ventaglio di ferro,
qualcuno penetrò nell’interno e lo spalancò. Salirono su e diedero fuoco
al gabinetto del Sindaco primieramente, poi buttarono nel falò, acceso nel
sottostante piano, mobili, libri, registri, tutto quello insomma che poterono
tirar fuori dai balconi nella segreteria comunale, e nella cancelleria della
Pretura. Da una porta laterale penetrarono nella S. Op. Domenico
Mìnolfi, di recente aperta. Aprirono le porte d’avanti ed in breve
l’elegante stanzone fu ridotto in una nera spelonca».
Secondo il prefetto, l’Associazione
agricola di mutuo soccorso «dei zappatori» di cui era socio il «Cottonaro»
e quella dei militari in congedo di cui era presidente quel Ludovico Litteri che
riuscì a convincere i dimostranti
«che era dei loro e con loro» — fornivano «maggior contengente ai
saccheggiatori ed agli incendiari». La terza associazione di opposizione al
partito
municipale, quella intitolata al Principe di Napoli, «nei primi momenti fornì
delle bandiere ai rivoltosi». Fu così che anche a Valguarnera i «rivoltosi»
anziché le bandiere socialiste, brandirono, contro la borghesia locale, il
tricolore sabaudo.
Non sono finiti di bruciare i
resti del municipio che si sente gridare: «Alla
posta! alla posta!». Si corre verso l’ufficio postale per impedire che
vengano dalle autorità richiesti aiuti da fuori. Ma è troppo tardi; sia il
delegato che i carabinieri erano riusciti a spedire dei telegrammi a
Caltanissetta. L’impiegato inoltre — di sua iniziativa — aveva
provveduto a telegrafare al sottoprefetto di Piazza Armerina. Si abbattono i
pali del telegrafo, se ne tagliano i fili e si dà fuoco all’ufficio.
Si attaccano i casotti daziari,
l’ufficio uscerile e quello del registro. Qui «il povero ricevitore si
affaccia ignudo al balcone assieme alla moglie impietosendo la plebe con un suo
bambino sulle braccia. Nessun male egli si ebbe», ma la «pesante cassa forte
fu tirata fuori e scassinata a colpi di piccone». Poi si va al Monte di pietà.
Ecco come De Felice racconta la scena che vi si svolse:
“Il signor Francesco Litteri,
impiegato al Monte, si affacciò alla finestra e disse: “Popolo di Valguarnera,
torna domani e ti darò i pegni. E' roba tua”. La folla rispose: A domani! E andò
via”.
Frattanto i «civili»
terrorizzati sono fuggiti a nascondersi o “a richiudersi in casa ad
organizzare i mezzi per la difesa della vita e della proprietà”. Completata
la distruzione degli uffici pubblici, «la folla furente, ardendo tizzoni
ardenti ed emettendo grida di rivoluzione» cerca «con terribile insistenza»
il delegato e il sindaco. Questi é già fuggito; nel suo palazzotto, “i
tumultuanti” — come le cronache dell’epoca definiscono i dimostranti —
non trovano che le donne:
«All’appressarsi dell’onda, le donne della
casa del sindaco, spaventate, piangenti, fuggirono nelle case vicine,
lasciando le porte aperte; e in un attimo la folla salì le scale, si precipitò
negli appartamenti e in tre minuti compie l’opera devastatrice: mobilio,
biancheria, specchi, tutto, tutto venne distrutto, o spezzato sul posto, o
precipitato sulla strada, dove altra folla si curava di ammonticchiare e mettere
fuoco ai rottami».
La stessa sorte tocca all’abitazione
del delegato, «senza riguardo alle donne chiedenti pietà», come diranno le
cronache. Si assaltano poi altre case, applicando una sommaria giustizia di
classe. Vengono devastate le abitazioni dei «civili» più malvisti e quelle di
chi pratica l’usura; sono invece risparmiate le case di quei borghesi che
vengono giudicati “buoni”. Ecco un episodio raccontato dal De Felice:
«La folla si inoltrava nel paese; molti temevano
per loro e per le loro famiglie; tutti credevano, essendosi sviluppata
spontanea la più violenta manifestazione della più viva lotta di classe, che
tutte le case dei borghesi sarebbero state messe a fuoco. Un contadino, certo
Tedesco, quando la folla giunse sotto la casa del suo padrone, salì sopra un
sasso e pronunciò pressapoco queste parole: “Fratelli di sangue, sapete che
il mio padrone è buono e che ci ha trattato sempre bene... Rispettatelo”. la
folla rispose con un grido: E vero! E
vero! E tirò innanzi».
Non così per la casa di don Filippo
Prato. Trovatala chiusa, i «petrolieri» ne abbattono la porta e la mettono «a
sacco e a fuoco». Vengono anche prese d’assalto le case del defunto vicario
Fichera, dell’ufficiale postale, del “falegname-proprietario” don Carmelo
Giannone, del negoziante di tessuti Calogero Franco; questi ultimi due sono
sospettati di praticare lo strozzinaggio. Non mancano i saccheggi. Nei
magazzini del Prato, come scrive un cronista, «il popolo valguarnerese andava
come in un pubblico granaio». Il Magno, a sua volta, racconta che
«Uomini, donne, bambini passavano carichi di
masserizie, di stoffe, di utensili domestici, con la pazza gioia di avere
rifornito la propria casetta di tante cose mancanti, e che a torto stavano nelle
case dei ricchi. Si riposavano ogni tanto e poi ripigliavano il cammino. Dai
balconi
spuntavano certi ceffi che divertivano la folla sottostante vestiti con cappelli
di signora o da prete suscitando evviva formidabili.»
Verso le dieci si decide — com’era
stato fatto nel ‘48 — di fare l’assalto alle carceri e di liberarne i
detenuti. Vi è una colluttazione durante la quale un carabiniere è leggermente
ferito. Uno dei detenuti, Carmelo Piazza, “povero
contadino di Canicattì”, racconta:
“Alle dieci, una folla immensa composta di donne
e di uomini armati solo di bastoni si precipitò nelle prigioni gridando: Abbasso
le tasse! Abbasso il delegato! Viva la libertà! Il carceriere dovette
aprire le porte ai detenuti che erano 14, di cui 11 di Valguarnera”.
I liberati vengono portati in trionfo
per le vie del paese «alla luce delle fiaccole di paglia, di tizzoni e di
masserizie bruciate».
Verso la mezzanotte, quasi tutti sono
tornati a casa. Giustizia è stata fatta. E’ stato liberato Michelangelo Di
Dio, sono stati distrutti gli strumenti tangibili dell’oppressione, sono
stati puniti i «civili» più odiosi e gli usurai, sono stati liberati i
detenuti. Alcuni hanno portato a casa un sacco di frumento o un vestito. Non sì
è voluto spargere sangue, come fa notare De Felice a difesa dei dimostranti:
«Il proposito di non spargere nemmeno una goccia
di sangue era stato da tutti manifestato ad alta voce. L’on. La Vaccara
vuole che si sappia che quel grido si senti correre in mezzo al tumulto: Niente
sangue! Ché, continua De Felice, se sangue si fosse voluto versare, se ne
sarebbe potuto versare, e molto, essendo rimasto, per molte ore, in balia dei
dimostranti, il paese».
E Colajanni aggiunge che a Valguarnera
«i tumultuanti posero in cimento la propria vita per salvare alcuni fanciulli
in una casa cui avevano appiccato l’incendio». Ci furono, però, parecchie
rapine, che — a detta del deputato ennese — non si ripeterono in nessun
altro paese durante i tumulti di quei giorni. Esse si spiegano col fatto che,
sul tardi, quando i dimostranti erano tornati a casa, «non restarono a
spadroneggiare se non una trentina di malviventi che non miravano ad altro se
non a rubare»
5.
L’intervento dell’esercito. Arresti e perquisizioni
Furono
soprattutto costoro a essere sorpresi verso l’una dai primi carabinieri venuti
da Piazza Armerina, mentre svaligiavano il “vasto negozio di tessuti» del
consigliere comunale Calogero Franco, nella stessa piazza in cui nove ore prima
erano cominciati gli incidenti:
«Mentre erano intenti a far bottino,
verso l’una e un quarto, giunse una pattuglia di carabinieri e soldati. Il
grosso di essi incominciò ad arrestare quelli che uscivano dalla porta che dà
nella via secondaria opposta all’altra che dà nella pianura. A questa, un
solo carabiniere certo Paperìni, che segnalo all’ammirazione del pubblico,
tenne testa a tutti quelli che volevano uscire. Gridava, sparava, fingeva di
comandare a una squadriglia ed era solo. Gli fu diretto un colpo di pistola che
andò a vuoto. Un cittadino gridò: Viva
la forza! Molti gli fecero eco e quel coraggioso lasciò il suo posto,
quando nel negozio non c’era nessuno»
Subito dopo, giunge un’altra
pattuglia di dieci carabinieri, guidata dal tenente Enrico Guglielmini,
comandante la tenenza di Piazza Armerina. Nel rapporto che durante la notte
spedisce al sottoprefetto, egli scrive tra l’altro:
«Verso l’una di stamane giunsi a Valguarnera
dove trovai il sig. Serva con 20 militari arrivati poco prima percorrendo strade
campestri. Il predetto ufficiale si portò subito alla caserma e quindi alle
vie principali procedendo a 13 arresti di persone sorprese in flagranza di
furto. Mentre entravo in paese con 5 carabinieri a cavallo e 5 a piedi, furono
sparati contro la pattuglia colpi di fucili. Il carabiniere Rabulina Alessandro
rispose con colpi di moschetto contro circa 50 persone. Per ora ignoro se sianvi
morti o feriti fra borghesi. Il carabiniere Castel Alfredo riportò lesione non
grave alla testa. Mi accingo a ricercare Sindaco, Delegato e Pretore. Finora non
giunse compagnia Castrogiovanni (Enna, ndr). Occorre un immediato rinforzo di almeno 250
uomini per procedere arresti e prevenire disordini ed anche sanguinoso
conflitto. La popolazione è allarmatissima, però la sommossa par vada
quietandosi. Ritengo che sul far del giorno reagiranno per ottenere la
scarcerazione degli arrestati. Soggiungo infine che tutti i rinchiusi in queste
carceri mandamentali in numero di circa 15 vennero dagli occupanti rimessi in
libertà. Prego telegrafare nuovamente Castrogiovanni procurando adunare maggior
numero possibile militari».
La prima notizia dei fatti, telegrafata al sottoprefetto di Piazza
Armerina
prima dell’interruzione della linea, veniva da questi comunicata al prefetto
di Caltanissetta, che alle ore 23,25 — quando il paese era ancora in mano ai
dimostranti — in questi termini ne dava comunicazione al ministero degli
interni:
«Dal sottoprefetto di Piazza Armerina mi viene
telegrafato che oggi alle ore 17 l’arresto di un pregiudicato per opera Arma
Reali Carabinieri ha dato luogo sommossa popolare. Furono rotti cristalli
finestre ufficio telegrafico ed indi folla tumultuante corse minacciosa verso
caserma Reali Carbinieri. Sottoprefetto ha dato occorrenti disposizioni perché
si recasse sul posto forza da Piazza e da Castrogiovanni. Ribelli avendo rotto
fili telegrafici nei pressi di Valguarnera non è stato possibile avere finora
più particolari notizie. Manderò subito ulteriori ragguagli. Derosa».
Il telegramma è vago e impreciso, ma
la reazione di Crispi è immediata e decisa. Nella mattinata del giorno
successivo, lo statista siciliano invita, con un telegramma cifrato, il prefetto
e la magistratura alla repressione:
«Confido che per fatti di Valguarnera
l’autorità giudiziaria abbia iniziato regolare procedimento. F.to Crispi»
Subito dopo questo messaggio, il
prefetto Derosa è in grado di comunicare al Crispi maggiori dettagli, avendo
avuto notizia del rapporto del tenente Guglielmini:
«Jersera folla furente percorse paese
emettendo grida di rivoluzione, appiccando il fuoco Municipio, Casino Civili,
casa del delegato, casa sindaco, telegrafo, Pretura, Ufficio Registro e Posta.
Motivo sommossa fu arresto operato dal delegato in persona di individuo che
eccitava popolazione alla rivolta contro autorità e governo. Delegato per tener
fermo l’arrestato dovette chiedere carabinieri che furono costretti sparare
in aria colpi di rivoltella e moschetto, dal che derivò che folla mille
persone tentò invadere caserma e non avendovi potuto penetrare, intimorita dai
colpì di fucile in aria si riversò furente nel paese con grida di rivoluzione
e incendio. Non è stato possibile avere altre notizie non ostante abbia
disposto nella scorsa notte fossero partiti espressi comuni viciniori cagione
lunghissima distanza. In questo momento mi reco personalmente sul posto in
compagnia colonnello Pittaluga comandante zona e capitano carabinieri. Ho fatto
partire digià per quella altre due compagnie. Pref. Derosa».
Intanto a Valguarnera, dopo
l’arrivo delle prime due squadriglie, giungeva all’alba altra truppa da
Enna, comandata da un capitano. Ai carabinieri e ai soldati si univano «settanta
persone civili armate per ristabilire calma, tutela funzionari locali e loro
famiglie ricoverati in caserma carabinieri»
Queste “persone civili armate”,
come le chiama il prefetto, sono dei borghesi che, accompagnati dai loro
campieri, cercano di prendersi una rivincita. Si pattugliano le vie del paese,
si procede alle perquisizioni domiciliari e agli arresti. Da un lato, si teme
che la rabbia popolare riesploda, dall’altro, si vogliono catturare subito i
«capi direttori» della rivolta.
Napoleone Colajanni cita più
volte il caso di Valguarnera come esemplare della partigianeria esercitata da
chi dirigeva la repressione. Come scriveva De Luca, in Sicilia, dopo i
tumulti, tutti avevano da temere poiché “i cavalieri, i commendatori, i
baroni, i sindaci ed i deputati presentavano sulle liste di cattura e di
proscrizione non solo i nomi di quei che loro avevano fatto un lievissimo torto
o erano semplicemente antipatici o sospetti alle illustrissime
signorie"”
Così a Valguarnera, dove,
secondo Colajanni, «i moventi degli arresti in massa sono talmente laidi da far
ribrezzo», inoltre, sempre secondo il deputato ennese, «molti che furono
maggiormente responsabili delle rapine e degli incendi si assicurarono
l’impunità facendola da delatori e mettendosi ai servigi delle autorità
politiche e amministrative, denunziando cittadini onestissimi, facendoli
arrestare o costringendoli a fuggire. E i latitanti, infatti, furono a centinaia».
Tra questi, il <Cottonaro», che sì costituì solo dopo parecchi mesi.
Agli arresti e alle
perquisizioni si procede per tutta la giornata del 26. Gli arrestati vengono man
mano rinchiusi nella caserma dei carabinieri. E’ lì davanti che nel
pomeriggio un gruppo di popolani trova il coraggio di effettuare una nuova
inutile manifestazione. Telegrafa il prefetto:
«[...] fino alle 17 di oggi vi fu
calma perfetta, ma alla detta ora, nuova folla tumultuante fecesi innanzi
caserma carabinieri al grido: Abbasso le
tasse! Al secondo squillo di tromba fatto dal capitano comandante le truppe
la folla si sciolse».
Nello stesso pomeriggio, avveniva un
incidente causato dalla tensione non ancora sopita. Mentre dava manforte ai
militari nel pattugliamento del paese, «un gruppo di onesti cittadini s’imbattè,
nella via del Canale, in una squadriglia di soldati che aveva la consegna di non
far passare nessuno. Furono due colpi in aria ferendo due persone affacciate ai
balconi. Ma l’equivoco si dissipò e la calma relativa si è ristabilita».
La sera, quando giunge il prefetto in
compagnia del regio procuratore, del giudice istruttore e del colonnello
comandante la zona militare, Valguarnera «presenta l’aspetto di una città
caduta in mano d’un esercito nemico».
La notte trascorse tranquilla.
L’indomani mattina però «osservansi nuovi gruppi tuttavia minacciosi, specie
presso l’entrata dell’abitato». La truppa «che è in giro per disperderli»
non sembra sufficiente al prefetto che dispone l’invio di due altre compagnie
da Caltanissetta «per rincorare lo spirito dei cittadini abbastanza depresso».
Nel corso della giornata, «l’azione della polizia giudiziaria prende maggior
svolgimento», continuano le perquisizioni e gli arresti «in mezzo alla
soddisfazione dei danneggiati», come telegrafa il prefetto al ministero degli
interni. I quotidiani nazionali di quel giorno danno le prime sommarie
informazioni sui «tumulti di Valguarnera».
6. Si
riunisce il consiglio comunale. La proclamazione dello stato d’assedio
La mattina del 28 dicembre, nell’aula
consiliare bruciacchiata, con sedie e tavoli presi in prestito dalle case
vicine, si riunisce il consiglio comunale alla presenza del prefetto e del
colonnello. Il prefetto, che aveva convocato il consiglio, interviene per primo
invitando “la parte eletta ed onesta della cittadinanza a stringersi in un sol
fascio spezzando le barriere di partito per contrapporre un argine ai conati
sovversivi e criminosi del basso fondo sociale”. Secondo il Derosa, si deve
infatti alle “cittadine discordie” se coloro che “non meritano l’onore
di appellare socialisti, nemmeno anarchici, ma bensì traviati, nel cui cuore
non alberga altro sentimento che l’odio contro l’umanità” hanno potuto
«pescare nel torbido». Conclude proponendo di «sciogliere un voto di
ringraziamento e di plauso ai valorosi militari» che hanno liberato il paese
dall’«orda briaca e feroce dei petrolieri e dei saccheggiatori».
Prende poi la parola il consigliere
Giuseppe Oliveri, uomo di punta del «partito municipale». [Sue sono le poesie dialettali presenti nel sito “Valguarnera da
leggere”, ndr]. L’oratore, che è anche consigliere provinciale e che
succederà all’avvocato Gaetano Prato nella carica di sindaco, accetta
sostanzialmente la tesi del prefetto sulle origini della sommossa, invita alla
«fusione dei partiti» e anzi, rifacendosi al recente discorso con cui Crispi
aveva presentato il nuovo governo alle Camere, sostiene di «essere giunta
l’ora di farla finita coi partiti». Propone di chiedere al governo «un largo
sussidio per riparare i danni sofferti dal comune», di dare ampi poteri alla
giunta municipale per ristabilire i servizi pubblici e conclude ringraziando
il prefetto «che ci ha portato il più soave conforto e la fiducia di
un’esemplare punizione degli autori delle violenze che» secondo il
consigliere valguarnerese, «non hanno riscontro che nei fatti della Comune di
Parigi».
L’avvocato Prato rassegna le
dimissioni dichiarando «di non poter più oltre continuare ad esercitare le
funzioni di sindaco». L’Oliveri lo invita a ritirare le dimissioni, «le
quali in questo momento, oltreché produrrebbero danno al Comune, darebbero
soddisfazione ai pravi desideri di quella canaglia che ha gettato il paese
nella desolazione e nel lutto» essendo — come aveva già rilevato il prefetto
— «lui e la desolata sua famiglia, vittime designate di tanta efferata strage»
Dopo che il consiglio ha
respinto all’unanimità le dimissioni del sindaco ed adottato per acclamazione
le proposte dell’Oliveri, la seduta viene sciolta. Non è stato fatto nessun
accenno alla miseria della popolazione, né alla crisi economica. Nessuno si è
chiesto — né il prefetto, né alcun consigliere — quali fossero le reali
cause della rivolta, né perché gli esponenti più potenti della borghesia che
controllava il paese fossero stati le “vittime designate» della vendetta
popolare”.
Intanto è arrivata altra truppa, si
continuano le perquisizioni e si effettuano nuovi arresti, giungendo —
secondo Colajanni — ai trecento arrestati. Il valore della merce recuperata
durante le perquisizioni domiciliari o per
le strade, dove era stata gettata da chi temeva di essere scoperto, veniva da
fonte governativa calcolato attorno alle centomila lire. I danni prodotti
dalla rivolta, invece, si facevano ammontare attorno al milione di lire, cifra
che Colajanni riteneva molto esagerata.
Tra gli arrestati, dopo una sommaria
istruttoria, venivano selezionati quelli da tradurre nelle carceri di
Caltanissetta, dove venivano condotti a piedi. Il 29 vi giungevano i primi tre
gruppi per un totale di cinquantasei persone, tra cui diciannove donne e due
vecchi ammalati. Sono essi a essere intervistati da De Felice il 30 dicembre.
Il deputato socialista, infatti, al fine di effettuare l’inchiesta sui fatti
di Valguarnera che si proponeva di pubblicare sul “Siciliano”, preferisce
recarsi nelle carceri del capoluogo piuttosto che in paese, dove «i lavoratori
sono fuggiti o arrestati, le loro famiglie temono di compromettersi e i rimasti
non parlano certamente». Prima di effettuare l’intervista, De Felice descrive
la pietosa condizione dei detenuti:
«Gli arrestati di Valguarnera, uomini,
donne, vecchi, furono trascinati a piedi a Caltanissetta. Circa 41 chilometri!
C’erano parecchie donne coi bambini al collo e diversi vecchi, stanchi, trafelati,
sfiniti, che facevano pietà. Al loro arrivo una popolazione muta, commossa,
piangente li accolse. Piangevano anche alcune delle arrestate: quelle che
avevano dovuto abbandonare i loro bambini a casa».
Tra di esse
c’è la moglie del «Cottonaro», Marianna Ardeni, che De Felice trova
piangente «perché, all’atto dell’arresto, le fu strappato dal collo
l’ultima sua bambina di due anni».
Intanto gli
avvenimenti precipitano. Dal 25 dicembre
‘93 al 5 gennaio ‘94, decine di
manifestazioni popolari hanno luogo in tutta l’isola. Si protesta contro le
tasse e contro le amministrazioni comunali. Si tratta di «moti isolati e
convulsionari» come li definisce il comitato centrale dei Fasci, che nel
manifesto del 3 gennaio rileva come l’agitazione popolare «metta la borghesia
nella necessità o di seguire le esigenze dei tempi o di abbandonarsi a
repressioni brutali». Seguire le esigenze dei tempi per i Fasci significava
operare
riforme che incidessero sull’assetto semifeudale della società siciliana, che
colpissero il latifondo e la rendita parassitaria, che stimolassero la
cooperazione,
che migliorassero le condizioni dei lavoratori. La borghesia locale e il governo
si abbandonano invece a una brutale repressione. Alle masse che pacificamente
manifestano al grido di «Viva il re» e «Abbasso le tasse», esercito,
campieri e guardie municipali rispondono sparando. Si va così dagli undici
morti di Lercara il 25 dicembre ai 15
trucidati di Santa Caterina Villarmosa del 5 gennaio, passando per i massacri di Pietraperzia, di Gibellina, di
Belmonte, di Marineo ecc.
Crispi
e il re agiscono in perfetta sintonia con la reazione isolana. Il 3 gennaio
proclamano lo stato d’assedio in Sicilia. Si sciolgono i Fasci e le
associazioni operaie , si colpisce la libertà di stampa e di riunione, si
arrestano i dirigenti socialisti e migliaia di cittadini, si istituiscono
tribunali militari di guerra che distribuiscono centinaia di anni di carcere.
7.
Il
processo
Uno dei tribunali è istituito a
Caltanissetta; è qui che viene celebrato il processo. I «partiti municipali»
cercano di sfruttare l’occasione favorevole per colpire non solo
l’opposizione popolare, ma anche quella borghese. Le autorità dello Stato
assecondano spesso questi disegni. Per istruire i processi, secondo Colajanni,
«si confidò esclusivamente nei partiti locali al potere. L’appartenere, anzi, ad un partito avverso a quello dominante
costituiva già una presunzione di colpa [..j. Perciò a Valguarnera si volevano
processare i principali e più temuti avversari del sindaco e molti se ne
arrestano e processano». Il 23 febbraio, mentre il processo è ancora in fase
istruttoria, Colajanni ne parlò alla Camera:
«[...] A Valguarnera s’istruisce un processo,
nel quale si implicano cittadini ricchissimi e conosciuti per le loro idee
temperate. E sapete perché? Perché si spera farli condannare dai tribunali
militari, per poi renderli responsabili civilmente dei danni arrecati dagli
incendi. (Commenti). Crispì, presidente
del Consiglio. È un’ asserzione vostra. Ciò non avverrà mai! Colajanni
Napoleone. Certamente l’asserzione e grave, e perciò la
sottometto alla vostra attenzione. Tentano, non so se ci riusciranno. Crispi, presidente del Consiglio. Nessuno tenta di queste
bricconate! Sono sotto processo perché sono ritenuti colpevoli. Colajanni
Napoleone. A Valguarnera vi era un delegato di pubblica sicurezza che
conosceva il paese da molto tempo, il quale si rifiutò di consentire alle
istigazioni del sindaco e della maggioranza locale, e di comprendere nel
processo codeste persone. Questo delegato coraggioso ed onesto fu
allontanato da Valguarnera, ed allora cominciò la seconda fase del
processo. Onorevole Crispi, io sinceramente vi credo uomo leale, e però
v’indico il caso. Spetta a voi di farmi diventare bugiardo, di far sì che
l’infamia non sia compiuta. E voi lo farete».
Per dovere di cronaca, se non altro, va
riferito il fatto che delle «bricconate» che si stavano compiendo a
Valguarnera il Crispi era stato avvertito quasi un mese prima dal deputato La
Vaccara, per cui la fiducia di Colajanni nella lealtà del presidente del
consiglio o era mal riposta o era solo un artificio oratorio.
A fine febbraio, su 141 imputati ne
vengono rinviati a giudizio 73, di cui 57 in stato di arresto e 16 in latitanza.
È la prima fase del processo, di cui riferiva Colajanni alla Camera. A metà
marzo, dopo l’eliminazione del pretore e del delegato che si opponevano ai
disegni di quella che La Vaccara chiamava la «cricca spadroneggiante», i
rinviati a giudizio salgono al numero di 103, di cui cento presenti al
dibattimento perché arrestati o costituitisi e tre ancora latitanti. Sono
imputati di devastazione, saccheggio e procurata evasione di detenuti.
Il processo si svolse in un
clima di forte tensione, dominato dal desiderio della vendetta, dalla
reticenza, dalla falsa testimonianza:
“Agli accusatori sfacciatamente partigiani,
odiosamente animati dal sentimento della vendetta I...] corrisposero i
testimoni comprati con oro sonante o reclutati tra le guardie di città e tra le
guardie daziarie che tutto potevano essere meno che sereni. Epperò nel processo
pei fatti di Valguarnera parecchi testimoni smentiti dalle persone più
autorevoli e convinti di mendacio o di reticenza furono incriminati per falsa
testimonianza” (Colajanni).
E ancora:
“Di testimoni mendaci, reticenti, interessati a
mentire a danno degli imputati si sa qualche cosa; di più se ne saprà del
caso della Barone di Valguarnera, che a dire il falso se non fu indotta dalle
promesse del delegato Munizio, vi fu certo dalla speranza di salvare dalla
prigione
il marito fratello al Cottonaro. Il Polizzi, della stessa Valguarnera, narra una
circostanza a carico di De Felice in quattro modi diversi e
non sa dire mai la verità, neppure per isbaglio! come disse il Presidente
del Tribunale di Guerra”.
A parte i fatti puntualmente
denunciati da Colajanni, si tratta di un vero e proprio «processone» (i
testimoni sono ben 384) condotto dalla magistratura militare in maniera
sbrigativa e, verosimilmente, punitiva. Due settimane dopo l’inizio degli
interrogatori viene emessa la sentenza; sono condannate 38 persone per un
totale di circa due secoli di carcere. La condanna più grave — 15 anni di
reclusione — la riportano Gaetano Profeta, Liborio Di Vita e Gioacchino
Loggia.
Solo questo, assieme al fatto
che nessun borghese fu condannato, è quanto sappiamo del processo, i cui
verbali sono verosimilmente andati distrutti. Il corrispondente da Caltanissetta
del «Giornale di Sicilia» riferisce, però, la scena che ebbe luogo alla
lettura delle sentenza:
«Appena pronunciatasi la condanna dei
primi imputati, una donna da Valguarnera si dà ad emettere grida disperate che
provocano una vera confusione, I parenti degli imputati presenti alla lettura
cominciano a gettarsi per terra, a piangere, a fare un diavolo tale che il
tribunale è costretto a sospendere la lettura della sentenza».
Queste grida di disperazione e
di rabbia sembrano rappresentare emblematicamente la sconfitta che il
movimento popolare subì a Valguarnera come in Sicilia a conclusione della
vicenda dei Fasci. La borghesia del paese, ancora per molti anni, sarà
ossessionata dal timore «dell’improvviso scoppio di una sommossa che
rinnoverebbe le scene selvaggie del 25 dicembre
1893», ma, in realtà, la sua egemonia fu consolidata da quegli avvenimenti,
mentre contadini e minatori cominceranno a riaversi dalla sconfitta solo
parecchi
anni più tardi. Sotto l’incalzare della crisi, assieme ai Fasci, era stata
sognata una società nuova. Con la svolta autoritaria operata dal Crispi
venivano
ripristinati i vecchi meccanismi. Per le classi subalterne siciliane si apriva
una pagina nuova, quella dell’emigrazione.
Tratto da: Enzo Barnabà “Il Meglio Tempo. I Fasci nella Sicilia
interna." Prefazione di Giuseppe Giarrizzo. Intervento di Francesco Renda”, Il
Lunario, Enna, 1998