di Gino Lamartina
Che i miei compaesani amino la musica più degli
abitanti dei paesi vicini, lo sapevo già da bambino, quando mi raccontavano
che a Grottacalda si distinguevano da tutti gli altri minatori perché la sera,
allorché tornavano al paese, con tutta la stanchezza che avevano addosso, cantavano.
Io stesso mi accorgevo che in tutti i saloni dei barbieri c’erano valorose
orchestrine di chitarre e mandolini e anche di violini che incantavano gli
sfaccendati.
Erano bravi anche nei cori delle chiese e
delle processioni, bravi anche i ragazzi delle scuole nei cori. Ma soprattutto
potevano vantare un corpo musicale di prim’ordine che veniva richiesto nei
centri vicini e anche lontani. La banda era l’orgoglio dei miei concittadini
che d’estate ascoltavano in massa i servizi che prestava sul palco in mezzo
alla piazza, eseguendo a meraviglia pezzi impegnativi del repertorio classico e
anche leggero. Che l’istinto musicale fosse innato nella mia gente lo dimostra
il fatto che anche i contadini cantavano nel lavoro specialmente d’estate
nell’aia, e ogni sera, quando si ritiravano dalla campagna stanchi sulle bestie
stanche, alleviavano la fatica col canto, una cantilena senza parole di poche
note lunghe cariche di nostalgia, echi remoti di usanze arabe. Pensavo a questa
caratteristica della mia gente, mentre ero preoccupato per il fatto che la
scuola secondaria, che avevamo istituito con tanti sacrifici e rischi e si era
già ingrandita in quell’anno scolastico ‘45/’46,
mancava dell’arredamento indispensabile e non poteva contare sull’aiuto
di nessuno: non c’erano lavagne, né cattedre; i banchi, residuati delle scuole
elementari erano troppo vecchi e piccoli e del tutto insufficienti. Né c’erano
tavolinetti e sedie per sostituirli. Bisognava provvedere subito.
Perché non organizzare una serata musicale, una specie di
varietà di quelli che trasmetteva la radio per i pochi che la possedevano?
Mi
misi subito in contatto con l’amico Salvino Laurella che aveva dalla famiglia
ereditato il talento musicale e ci mettemmo con entusiasmo a lavorare. Un
locale disponibile, seppure non molto grande, c’era: il salone dell’Istituto
Sacro Cuore. Lì c’era un palchetto per il teatrino delle educande che poteva
servire allo scopo. Su quel palco, opportunamente adattato, si sarebbe
collocato il pianoforte; c’era il posto per l’orchestrina e per coloro che si
sarebbero esibiti, oltre che per il presentatore.
Salvino si occupò dell’orchestrina; vi
facevano parte due bravi chitarristi, due violinisti (di cui uno, Maltese, era
insegnante della scuola), un clarinettista, un trombettista e un bassista.
S’incaricava lui di affiatarli e di istruirli ad eseguire i pezzi rispettando
gli spartiti; anche se non tutti conoscevano la musica, erano forniti di buon
orecchio e grande abilità.
I cantanti non mancavano tra i giovani e non
mancavano i solisti specialmente di pianoforte, di chitarra e di armonica. Dopo
tante prove e aggiornamenti potemmo fissare la data della rappresentazione per
una sera di sabato durante il carnevale. Quella sera ci fu un’affluenza di pubblico
che avrebbe riempito una piazza, altro che un salone; e il problema più grave
fu proprio quello di impedire l’ingresso a quanti si accalcavano alla porta,
amici e conoscenti che non volevamo respingere, e giovinastri che non si
rassegnavano a restare fuori e per i quali dovemmo ricorrere alla forza
pubblica. La serata ebbe inizio con l’orchestra che suonò una lunga rapsodia di
canzoni napoletane, accolte con entusiasmo dal pubblico. Quindi toccò a me
spiegare le finalità della serata e presentare i vari pezzi vocali e
strumentali. Accanto ai motivi allora in voga, venuti con le truppe di
occupazione, avevamo inserito alcune canzoni nostrane di carattere leggero e
sorridente, come «Il gatto in cantina» e «Il somarello» che furono cantate in
modo esilarante da mio fratello Mario. Anch’io cantai una canzone inglese
incentrata su una chiesetta, «Cathedral in the pines». Non mancò il solito
coro verdiano «Va, pensiero», accanto ai pezzi orchestrali impegnativi come
«Brasil» e agli assolo di pianoforte e di chitarra: Gino Di Pasqua fece furore
eseguendo con la sua chitarra la «Czarda» di Monti. Ricordo soprattutto
l’entusiasmo che suscitò Liborio Curia con la sua armonica a bocca che faceva
sembrare un organino anche quando la suonava soffiando col naso. Fu quindi
eseguita la farsa ideata da Salvino, che raccontava una vicenda buffa
attraverso gli strumenti i quali rappresentavano i personaggi che si
scambiavano, al posto delle battute, motivi intonati alla situazione, che
veniva sommariamente illustrata da me: una scenetta assai graziosa tutta
improvvisata che avremmo dovuto ripetere o almeno fissare sulla carta.
Infine, anche in omaggio al Parroco,
fondatore dell’Istituto ospitante e gestore della scuola, la serata, così ricca
di occasioni di allegria, si concluse con un momento di commozione religiosa:
sullo sfondo dell’orchestra che suonava l’“Ave Maria” di Schubert, io recitai
la preghiera alla Vergine di Dante.
Se avessimo avuto più senso pratico,
presi come eravamo dall’euforia della serata, avremmo approfittato della
soddisfazione del pubblico per raccogliere contributi per la scuola, la quale
dovette accontentarsi dei proventi piuttosto modesti dei biglietti, che,
nonostante tutta quella folla, non furono tutti venduti. Fortuna che non
dovevamo pagare nessuno.
Modeste erano state
certamente le nostre prestazioni, quasi tutte improvvisate; ma massimo
l’impegno di tutti noi giovani. Il pubblico se ne rese conto e ci premiò col
suo entusiasmo e la sua semplicità, non ancora smaliziata dalla televisione e
facile a lasciarsi trasportare dalla malia della musica.