Dopo
le prime tappe della tournée ci fu una sosta, un giorno in cui non ci sarebbe
stato lo spettacolo.
Ne approfittammo per fare una pausa di riflessione, nel
senso che cercammo di far riflettere Piscitello, l’organizzatore, a fare una
pausa.
«Lascia perdere,» disse Ronchi pensando alla
disperazione
dei familiari dello scavezzacollo «facciamo finta che abbiamo scherzato.
Dimentica questa tournée e soprattutto cerca di
dimenticarti
questo lavoro.»
«Ragazzi tranquilli, oggi voi riposate.
Ho avuto un’idea geniale: attacco io i manifesti per le
prossime tre serate. Con le prossime date recupero tutto, me lo sento.»
Se lo sentiva...
Il disgraziato era così frastornato che non avrebbe
neanche
sentito uno spiedino da barbecue conficcato da chiappa a chiappa.
Scendemmo dalla «127 rabbit» impestata di rotoli di
manifesti, pentoloni di colla, pennelli con la prolunga per le affissioni sui
muri più alti.
Piscitello ci lasciò su una spiaggia bellissima vicino a
Porto Empedocle, a cui si accedeva scendendo da una ripida discesa.
«Ragazzi, dunque, sono le nove e trenta del mattino, vi
vengo a riprendere alle… cinque e mezzo del pomeriggio. Lì sotto c’è un
ristorantino familiare delizioso, dite che vi mando io.»
Ce ne guardammo bene, certi che facendo il suo nome ci
sarebbe arrivato sulle spalle un conto di Piscitello non pagato da anni.
Fatto sta che trascorremmo una giornata indimenticabile
abbrustolendo al sole che solo in Sicilia sa essere così piacevolmente caldo,
facendo bagni, assaggiando le specialità del ristorantino seduti sotto il
tetto di paglia della veranda affacciata sulla spiaggia e chiacchierando
piacevolmente
con alcuni milanesi che avevano costruito le loro case di vacanza in quel posto
così isolato ma pieno di fascino.
Tutto andò meravigliosamente bene fino alle diciassette e
trenta, ora in cui in cima alla salita avremmo dovuto veder riapparire il
corpo minuto di Piscitello col viso sudato, tutto cosparso di colla da
manifesti da capo a piedi.
Ma alle diciassette e trenta lassù non apparve nessuno.
«Con tutti i manifesti che aveva da attaccare è normale
che sia un po’ in ritardo» ci dicemmo noi più per esorcizzare uno strano
presentimento che per reale convinzione.
Andammo a fare ancora un bagno e, nonostante ormai
sembrassimo due aragoste più che due esseri umani, restammo ancora un po’ al
sole.
Alle venti e trenta, sempre in tenuta da mare, decidemmo
di cenare al solito ristorantino.
A mezzanotte e dopo il sesto caffè, cominciammo a
dubitare
della puntualità di Piscitello e a pensare come saremmo potuti rincasare.
«Gli autobus fino a domattina alle nove non passano, taxi
o auto a noleggio non ce ne sono» ci disse la proprietaria del ristorantino.
Telefonammo a casa di Piscitello, nessuno lo aveva più
sentito né visto da quando al mattino aveva lasciato la casa.
Quando accennammo alla possibilità che il loro caro
potesse
aver subìto un incidente cogliemmo nella loro voce più una speranza che una
preoccupazione...
Alle due del mattino la signora del ristorante, ultimate
le pulizie del localino e della veranda dove avevamo fatto pranzo e cena,
accondiscese a prestarci dietro cauzione una sdraio e un lettino da sole.
Come due profughi, io e Ronchi ci addormentammo
rispettivamente
sul lettino e sulla sdraio, in costume da bagno e t-shirt, coperti
dall’asciugamano da spiaggia, lanciando una serie di preghiere notturne
all’indirizzo di Piscitello.
Fu una notte da incubo.
Mai la storia della meteorologia siciliana, con
particolare
riferimento alla zona di Porto Empedocle, vide le temperature notturne
precipitare in maniera così violenta.
Il massimo del minimo lo raggiungemmo verso le quattro,
quando dal mare si alzò una fitta nebbia spinta dal vento.
Ci avvolse, ci sconvolse, ci congelò.
Ronchi in preda agli incubi (cioè sognò ciò che ci stava
accadendo), cadde almeno un paio di volte dalla sdraio.
Verso le sei e trenta, svegliato dal vociare di alcuni
pescatori
che stavano tirando a riva le reti, mi alzai per andare ad aiutarli e Ronchi
ne approfittò subito per impossessarsi del mio ben più comodo lettino da
spiaggia.
Avemmo il tempo per una calda prima colazione, per rifare
un paio di bagni, per consumare un nuovo spuntino a base di pesce pescato poche
ore prima.
Poi, sapendo che la sera avremmo dovuto essere a Gela per
lo spettacolo, decidemmo di andarci in autobus.
Vi giungemmo dopo ore, verso le venti: nessuno aveva
visto Piscitello.
Alle 21, mentre un po’ di gente stava entrando in teatro,
una 127 gialla giunse come una saetta sul piazzale e inchiodò davanti alla
cassa.
Scese Piscitello con l’aria sconvolta, vestito allo
stesso modo del giorno prima ma molto più stropicciato, completamente
disidratato, gli occhi fuori dalla testa e i capelli tutti storti, l’auto
ancora zeppa di tutti i manifesti che evidentemente non aveva affisso.
Unica differenza: il barattolone della colla era ancora
intatto ma la colla si era asciugata.
«Dovevi passare a prenderci ieri pomeriggio a Porlo Empedocle e ti presenti con un giorno e mezzo di ritardo, perdipiù senza aver attaccato uno straccio di manifesto? Ma che cazzo ti è successo?» chiesi con uno sguardo misto di commiserazione, incazzatura, curiosità.
«Ieri faceva molto caldo,» disse con la voce cavernosa di
chi si è appena alzato «minchia che caldo. Ho avuto un colpo di sonno.
Mi sono fermato a un chilometro da dove vi ho lasciato e
mi sono addormentato sul ciglio della strada, in un posto dove non c’era
neanche un albero.
La macchina era un forno, minchia che caldo, che
dormita..,
insomma mi sono svegliato due ore fa!»
«Hai dormito un giorno e mezzo in macchina?»
«Sì, sarà stato il caldo... le esalazioni della colla...
minchia mi sono svegliato due ore fa.»
Continuò a ripetere quella frase più volte mentre,
camminando
come un automa, entrava in teatro.
Nessuno gli disse più nulla né tentò di rimproverarlo.
La tournée finì in fretta, la carriera di Piscitello
organizzatore anche, mi restò una sua cambiale che non misi mai
all’incasso: avrei avuto più possibilità di far tredici al Totocalcio senza
aver giocato la schedina.
(titolo originale del capitolo: “La nebbia di Porto Empedocle”)