MIMI CAROPIPANI
di Francesco Lanza
La caropipana
La caropipana aveva un petto quanto l’altar maggiore, e ogni minna come una
ciaramella, che riempiva la casa e ci poteva allattare una pariglia di ciuchi.
Or quando trovò il
figliuolino, bello pasciuto come un angiolo, dinnanzi a tutti nella strada, in
chiesa o alla piazza, tirava fuori quell’abbeveratoio col cannello, che pareva
il mondo che ha Gesù Bambino nella mano, e glielo dava a succhiare. Le donne a
farsi la croce, e gli uomini che se la godevano, a mirar quella grazia di Dio
che faceva venir la tentazione. Quella, fresca senza rossore, come facesse
vedere una zucca o non fosse carne sua.
Sua ma’ non ne poteva più, e
una volta che la metteva tutta fuori, la benedica, gli disse:
- Ma che pulizia è cotesta, di
sbattere la minna sul muso a chi non vuole, che pare una bótte? Non lo sai come
si dà, con grazia e decoro, che basta metterne fuori un pezzettino e sopra la
mano a coprirla?
E quella, come una rosa:
- O che fa, me la rubano? Sempre mia resta.
(Mimi
siciliani, Milano, 1928)
I ferri ai piedi
Due caropipani, di professione ladri, pensarono di
morire; e buttatisi sul letto non davan più segno di vita. Gettaron loro le
strida, li vestirono, li misero nel cataletto e li portarono per morti in
chiesa. Ma la notte, quelli buttarono all’aria i coperchi, e più vivi di prima
si diedero a saccheggiare ogni cosa e rotte le sbarre scapparono via per le
lunette. La mattina, aperta la chiesa, non si trovarono più i morti né le cose
di prezzo, e lo scandalo fu grande.
- Qua bisogna provvedere -
gridarono i gabbati - ché i
morti non son morti e fan cose vivi; - e radunato in fretta il consiglio, dopo
molto sputare fu finalmente gettato a suon di tamburi e trombe questo bando:
- Caropipani, da oggi in poi, chi vuol morire ha da pensarci due
volte; e chi non è sicuro d’esser morto non muoia, ché quelli che son tali
verran ferrati ai piedi come muli!
E d’allora in poi, così fecero;
e di caropipani non morì più alcuno che non fosse veramente morto.
(Mimi siciliani,
Milano, 1928)
L’asino tramutato
Due caropipani, di
professione ladri, battevano le strade e le campagne. Or un giorno prima di
giungere a Piazza, videro avanti un canonico, che lemme lemme si tirava dietro
un bell’asino bigio. Un d’essi allora tolse pian piano la cavezza alla bestia e
se la mise lui al collo; e l’altro pensò al resto.
Dopo un
bel pezzo, giunto a un monticello di pietre, il canonico vi si pose per
montare a cavallo, e distratto com’era, alzava già l’anca; ma dallo spavento restò
così a mezz’aria, e non sapeva che dire e che fare.
E
quello:
- Ah, birbante! tu dunque credevi di potermi cavalcare impunemente per tutta la vita? Finora è toccato a me, ma venuta è la tua ora. D’asino io sono tramutato in uomo, d’uomo tu sarai tramutato in asino perché così vuole nostro Signore Gesù Cristo; e s’io fui bigio, tu sarai morello. Suvvia, lascia la corda, ch’io ti voglio mettere la cavezza!
Ma non aveva ancora finito, che il canonico, con la tunica alzata fino al
bellico, era giunto a Piazza gridando al miracolo.
E il caropipano ci guadagnò anche la cavezza.
(Mimi siciliani, Milano, 1928)
Una volta, andando il
caropipano a Piazza incontrò alla Bellia il piazzese, che a cavalcioni di un
grosso ramo di pioppo dava giù botte da orbo con l’accetta per tagliarlo.
- O che
fate? - gli domandò.
E
quello:
- Non
vedete che fo? taglio il ramo, che mi serve.
- O come? e se casca quello, non cascate anche voi?
-
Cascate voi invece - fece l’altro stizzito - che siete cristiano, e non io che
sono piazzese.
Ma non
aveva dati altri due colpi che il ramo crollò e lui insieme, che restò a terra
come il piazzese che era.
(Mimi siciliani, Milano, 1928)
La croce
Il
caropipano se ne andò a Piazza a trovare il compare e la comare, che non vedeva
da molto tempo. Gli fecero grandi feste, e non sapevano più che dirgli, fargli
e contargli, tutt’e due sempre intorno come due fusi, e la moglie più del
marito.
Nel
mentre cominciò a piovere a diluvio, e i lampi e i tuoni uno andava e l’altro
veniva. Si fece notte, e il tempo non accennava a finire; e il caropipano per
non dar loro fastidio voleva andarsene lo stesso.
- Oh
che siete pazzo - lo redarguì il piazzese - con quest’acqua che pare
l’universale? Restate qua con noi.
- O
come resto che siete stretti?
- Se
siamo stretti, ci stringiamo di più. Ma non vedete che il letto è grande come
un’aia? Voi vi mettete al muro, mia moglie nel mezzo e io davanti.
Così fecero. Spensero la lumera e si misero a letto; e il piazzese ch’era furbo, per paura che il compare non gliela facesse a tradimento con la moglie, ci mise davanti la mano a riparare l’entrata; e il caropipano sentito l’ostacolo ci si rodeva.
Or
mentre stavano così, un gran lampo dalla finestra saettò la camera. Nel
soprassalto, il piazzese atterrito levò la mano di là per farsi la croce; e in
quella, sgombro il terreno, l’altro saltò addosso alla donna, senza fallare di
tanto.
All’amen
il piazzese tornò con la mano a difendere il luogo di prima, ma ci trovò
invece il compare; e meravigliato della prontezza, faceva, aspettando che
quello finisse:
- Ahbo’, compare mio, manco il tempo di farmi
la croce mi date?
(Mimi
siciliani, Milano, 1928)
Pagina vista
volte