L’ORA DEL CIRCOLO
di Francesco Lanza
Lentamente un senso di
freschezza, come un tremolio furtivo di foglie, alita sul paese avvilito dal
sole che vi ha sfolgorato per tutto un meriggio lungo e stagnante come
un’eternità; s’adagia in rettangoli vellutati d’ombra, frastagliati d’embrici,
di comignoli e di veroni nelle strade deserte e risonanti come imbuti di latta,
s’insinua attraverso gli spiragli e le fessure nelle case misteriose e
sepolcrali, dove l’afa fluttua densa e appiccicaticcia come una colla, sommergendo
in un catastrofico torpore le cose, gli avvenimenti e gli esseri.
Alla fine della sua
traiettoria il sole s’addolcisce, stemperando la canicola in un oro fluido e
vibratile in cui s’impallidisce ingenua e nativa la campagna, distesa e
palpitante nel cerchio malsicuro dell’orizzonte: Enna da una parte vira di
bordo verso il grezzo, impervio prisma di Assoro, più lontano Mongibello, come
una splendida mammella riversa, porge il suo capezzolo alla bocca capricciosa
di una nuvola. Il mondo si schiara con una grazia prossima, con un umore
infantile: le rocche di Càstani bianche come marmi si potrebbero toccare con la
mano.
Si comincia a rifiatare: alla
prima brezza che scivola lieve come respiro, quasi inavvertita, si direbbe che
gli olivi lontani arrivino a stormire fin qua, portandovi qualcosa d’agreste,
di vegetale.
È questa l'ora che il paese, rotte le
muraglie dell'afa, che lo imprigionavano come una mandria in un lezzo di
letami, in un fortore d'uomini e di bestie, si apre tutto e s'abbandona, si spalanca
con un respiro di sollievo verso la campagna straripante, e si aerea, si
ossigena, si fa lieve, quasi immateriale, sospeso alla guglia esile di
Sant'Antonino che sembra esalarsi nel chiaro gorgo dell'aria.
Le brezze, i soffi vi irrompono, lo ventilano
da ogni parte. Non è tanto il sole che declina, innocuo e maestoso come un
leone moribondo, arrossando i calcari di Gallizzi, quanto i pioppi, i noccioli,
gli umidi canneti di Cafeci, i mandorli di Paparanza, gli olivi di San
Francesco che vi portano sull'ali dei venti, per le strade spalancate come
canali, questo refrigerio di verde e di vegetazione, questa rorida freschezza
di cime e di valli, dove odorano secretamente gli origani e le nepitelle lungo
i corsi d'acqua.
Si sentono cigolare sui cardini annosi i
pesanti portoni, stridere e socchiudersi gli usci, arrotolarsi gli stoini: si
fa largo, con tutti gli onori di casa, all'ombra che invade e refrigera fin gli
ultimi recessi, gl'interni soffocati, al favonio gentile che s'intrufola
dovunque, fuggevole e scherzoso come uno spiritello.
Delle finestre si aprono con un fracasso
di liberazione, delle mani paffute posano sui davanzali le bombolette di
terracotta piene di acqua a infrigidire, con la pezzuola bagnata intorno.
Stirandosi pigramente i gattoni baffuti saltano giù dai giacigli, e dopo una
meticolosa toletta a colpi di lingua vengono ai balconi a godersi anch'essi il
fresco, acculati sulle zampe di dietro, impassibili, obliqui ed enigmatici come
idoli.
Sull'origliere molle di sudore, il
borghese acquoso apre di soprassalto gli occhi, reduce da un sonno nero e
pesante come la morte, riafferra con una difficoltà vitrea e vertiginosa la
realtà che gli vacilla da ogni parte, si attacca ai più impensati punti di
riferimento, ai pretesti banali che l'inverosimile vita domestica gli offre, e
finalmente risale sano e salvo a galla dai flutti acherontei che lo sommersero,
finché sicuro del fatto suo non si ritrova come sempre saldo il letto sotto
l'adipe, e sotto il letto il terreno. Attraverso gli scuri ancora chiusi,
l'arioso, ombratile potere dell'ora gli lambisce la cotenna spugnosa e
sudaticcia, lo irrora, la permea, lo spalanca come un edifizio, gli dà la prova
del tre della sua corposità e del suo volume, e nell'ambiente che si velluta
gli aspetti immemorabili del mondo che lo circonda gli ricadono sotto il
controllo dei sensi con una brusca innocenza che li fa inattesi e primordiali.
Dalle stalle alle cucine sente rinascere i segni della vita, nitidi e vicini
come se ne avesse dentro di sé le scaturigini, sente crescere i suoni e i
rumori, l'insegue con l'orecchio, li ferma, li scompone, beato di ritrovare
pezzo per pezzo la sua vita, nel ciabattio della moglie o della serva in
cucina, nel cicaleccio delle ragazze che si rimettono a nuovo, nel diavolìo che
scatenano i ragazzi, non tenuti più in freno dall'obbligo del silenzio.
In calze scende ad aprire gli scuri e i
vetri, e gonfio e irto di sonno come un porcospino affaccia quanto basta la
testa per prendere contatto col risveglio della strada e del paese, con la
carezzevole mollizie dell'ora, immediatamente rimesso in carreggiata col mondo,
al corrente col fiume della vita.
L'ombra continua a montare fino ai tetti,
dove sì e no restano pavide briciole di sole, eteree e cangianti al gioco delle
brezze, cui qualcosa d'inaugurale e di prorompente danno di botto gli scampanii
di ventun'ora. Prima è la Matrice, la capoccia della partita, la foriera di
fasti e nefasti, che scatena con un tumulto d'oceano l'onda canora e feudale
dei suoi bronzi, di cui con una felicità inaspettata fremono fino all'orizzonte
gli azzurri, concavi spazi del cielo; e subito dietro, come trepidanti al
medesimo slancio, tutte le altre le fan coro, da quella verginale e squillante
di Sant'Antonino a quella chioccia di villana rifatta di San Liborio:
fluttuante mare di suoni da cui alfine il paese emerge traspirante in una
chiarità di perla.
Da ogni parte la vita risvegliata
affluisce con un molle fervore di vacanza nella piazza, porto socievole e
svagato, raso rissosamente dai voli labili e ricorrenti come ghirigori dei
rondoni, dove i cani in voglia di ruzzare fanno combutta coi monelli, e i
mendicanti lustrati come vecchi utensili siedono per diritto di prelazione sui
bordi della banchina o sul sedile della Matrice, con le mani incrociate sul
bastone o sulle stampelle. Sulla soglia delle botteghe il mercante e il
farmacista, ancora assonnati e catastrofici, con le mani dietro la schiena,
levano come bracchi le nari per annusare nell'aria le novità; gli sfaccendati
assiepano come vespe i tavoli dei caffè e le porte delle società - Democratica,
Cristiana, Cooperativa San Giuseppe, Unione e Lavoro - i bellimbusti fiammanti
e piatti come farfalloni pigliano di mira i balconi con uno sguardo che dice
alle ragazze, come il sorcio alla noce: « dammi tempo che ti buco!».
Ma questa è l'ora classica del Circolo:
già da un pezzo l'inserviente ha messo in bell'ordine le sedie sulla banchina,
a vari reparti secondo i crocchi che si formeranno, coi giornali nelle stecche
a portata di mano; e lui stesso siede da canto con la pipa in bocca e uno
sguardo di commiserazione all'umanità sottostante, sottolineato da frequenti
schizzi di saliva.
I primi ad arrivare, ad uno ad uno come
affiliati a una setta, con qualcosa d'iniziale e di restaurato nei volti, nell'incesso
e negli abiti atavici, sono i grandi. di Spagna in disuso, gli statutari
ingialliti dall'ozio e dalla prescrizione, quelli che vogliono essere i primi
in qualche cosa almeno quando non c'è ancora nessuno prima di loro. Entrano con
un passo di feltro, automatici e falotici, e assicuratisi che il campo è
libero, subito assumono un'aria ispettiva, integerrima e responsabile, fanno il
giro dei locali trovando da ridire su tutto, richiamandosi continuamente allo
statuto, e uscendo finalmente per l'altra porta sulla banchina riversano su
l'inserviente abbrutito da trent'anni di inonorato servizio il torrente delle
loro recriminazioni accumulate, sotterranee e calamitose di padri coscritti che
assistono alla rovina della patria. Per fortuna la banchina comincia ad
affollarsi di nuovi venuti: man mano, riverniciati e sufficienti, entrano per
la prima porta e immancabilmente riescono dalla seconda come riguardevali cucù
di vecchi orologi, guardano un poco dall'alto della loro sibillina maestà
l'universo, e infine con una specie di salto della morte si degnano di
rituffarsi nel mare oleoso e immutato della vita abituale.
Allora gli statutari per la pelle passano
in fretta e in furia in second'ordine, si fanno piccini piccini, fino a
diventare quasi inesistenti e inosservati: seduti in disparte, come mummificati
dall'interno cruccio, oleografici e decaduti, con una mano sul bastone dal
manico d'argento, in posa antiquata tra di almiranti e di guardaportoni, si
mettono a sfruconarsi il naso, astratti e misteriosi, come compiendo un rito
orfico.
Intanto, mentre il cielo tramuta facendosi
come più rado e deterso e si respira a larghi polmoni, le sedie vengono
occupate, s'intrecciano i conversari d'uso, evasivi, protocollari e
preistorici, sul tempo e sulle notizie fresche d'un mese, in cui tuttavia molti
trovano la giustificazione della propria giornata; si formano i primi crocchi,
dapprima occasionali e provvisori e man mano sempre più scelti secondo vaghe e
pur vigenti sfumature d'interessi, di merito e di casta.
Sostenendo gravemente le loro pance come
mappamondi, ecco nelle proporzioni locali i magnati del censo e dell'industria,
gli agrari riconoscibili alla distanza albagiosa di gente usa a misurare il
mondo ad are ed ettari, sempre in mostra di essere piantati a gambe larghe
sulla distesa ideale dei loro feudi; persuasi e definitivi, dal cui labbro
pende imperterrita la minutaglia civile e impiegatizia dallo sguardo e
dall'animo di basilisco.
Paffuti e fatui come capponi, i galletti
di razza, gli adoni feudali, i ricchi ereditieri, fatali, vittimari e navigati,
che si trascinano dietro come una filza di fichi secchi i cuori butirrosi delle
fanciulle da marito, sembrano portare in fondo alla pupilla sgargiante
l'ineffabile peso dei trionfi amorosi; con una gamba sull'altra, suddivisi tra
la segretezza e la pubblicità, squartano sull'altare del ricordo e del
desiderio le veneri inveterate e immaginarie dei loro peripli; ed ebbri della
carneficina, guardano le ragazze che passano o si pigiano ai balconi della piazza,
sorridono con una lenta, rotonda soddisfazione di pavoni a sé stessi, quanto
più irresistibili e bellicosi altrettanto facili a basire e a invischiarsi,
imbambolati, buacci e quattrinosi, dietro la prima gonnella che faccia loro un
po' di vento sotto il naso.
L'ora culmina: la conversazione si
vivifica, sollevandosi e sciabordando secondo i buffi del vento, gli àsoli
della tramontana, come un cervo volante all'invisibile filo delle convenienze;
delle falle umorose, irriflessive e suadenti di cordialità si aprono tra i vari
crocchi, li allargano a ventaglio, li fanno convergere attorno al maggior
centro d'attrazione. Un senso di civismo, di conciliazione e di connivenza si
diffonde nell'aria: il grande di Spagna riaffiora reintegrato dall'inesistenza
iperborea in cui s'era sommerso, il feudatario e il semplice civile si guardano
nel bianco degli occhi con un sottinteso di familiarità remota, con una
prossimità ancestrale ed egualitaria. Se non è l'ammazzasette che strabilia ed
esilara l'uditorio con le gesta reali della sua immaginazione, generalmente è
il dotto del circolo che, salito in cattedra per lo sfogo occasionale ed
obbligatorio della sua scienza approssimativa, alla giornata e di palo in
frasca, sparge intorno a sé il più ossequioso e soddisfacente pànico.
Dentro, i vecchi abitudinari che non sanno
rinunciarci, messi del resto tra due correnti d'aria, ventilati e scalmanati,
bussano, strisciano e battono a tutto spiano, scoppiando in senili mortaletti
di rissa alla fine d'ogni partita; con fiumi d'epiteti invece che di sangue,
che scorrono abituali e inconseguenti nel mare secolare dell'uniformità. Nelle
sale interne, padroni e domini del campo, i ragazzi, inconsci perpetuatori
della razza, sfogano alla lor volta in malestri e in schiamazzi le speranzose
esuberanze, rifacendo punto per punto la vita dei padri; finché in un
tumultuoso parapiglia non sciamano fuori a far gonfiare di legittimo orgoglio i
petti paterni.
Si sente, lievi e giustificati, d'aver
vissuto tutta la giornata soltanto per attendere, come una novità, come una
grazia insolita e particolare, quest'ora che compendia le ragioni ideali del
mondo, che chiarifica e motiva finalmente l'esistenza, rianima l'immoto flusso
dei giorni, riattacca la morta gora dell'abitudine al canale della continuità.
Sotto, anche la piazza brulica e brusisce
e dal marciapiede prospiciente, il presidente della Società Operaia, coi baffi
attorcigliati minacciosamente, col sigaro dalla vivida bragia all'angolo della
bocca, forte dei misteri della banca che amministra, lancia all'olimpo paesano
occhiate discriminanti e pregiudiziali, che hanno il peso e l'inevitabilità
delle cambiali in scadenza.
Prima di disciogliersi nel morbido gorgo
della sera, il cielo ha una cruda pausa di luce, un fermo bagliore d'opale, in
cui il paese, coi suoi sghembi e i suoi rattoppi, ha un livido risalto di
cristallo. L'ala dell'avemaria, lenta e tremebonda, effonde il primo soffio
della notte.
Francesco
Lanza, Il Tevere, 22 ottobre 1928