DOLCE PAESE
di Gino
Lamartina
Il preside era stato
perentoriamente rigoroso quel giorno (era il sabato 20 dicembre del 1932):
sarebbe stato gravemente punito chi avesse anticipato le vacanze di natale
assentandosi il successivo lunedì, che le precedeva, non sarebbe stato
riammesso in classe, se non accompagnato dal genitore. Ma quell'avvertimento
aveva fatto nascere in me proprio il proposito di andare al paese quello stesso
giorno a piedi, senza attendere che mi mandassero i soldi per il treno.
L'atmosfera natalizia s'era già fatta intensa e
struggente, e irresistibile era divenuto il pungolo della nostalgia della casa.
Ma c'era, ancora più forte, uno stimolo primordiale: la fame. Quella settimana
la padrona di casa mi aveva nuovamente sottratto una forma grande del pane che
mi mandava mia madre ogni martedì col carrettiere Colajanni che veniva a
prelevare i tabacchi: il buon pane di grano duro fatto da mia madre che
costituiva il mio vero sostentamento e non poteva essere sostituito dal chilo
di pane di bottega che quella mi dava in cambio; ma io sapevo che i suoi
bambini avevano più bisogno di me e lasciavo fare. Così già il sabato la mia
scorta di pane era quasi esaurita: come avrei resistito altri due lunghissimi
giorni? Dovevo partire: nulla avrebbe potuto più trattenermi, nemmeno le
minacce del preside. Pertanto, dopo aver consumato quella brodaglia calda, che
ogni giorno si faceva attendere a lungo e non mi saziava mai, misi nel
sacchetto gli indumenti usati e i pochi libri che avevo e, benché il pomeriggio
fosse già avanzato, mi posi in cammino per raggiungere a piedi il paese. Sapevo
che per alcuni chilometri si percorreva la strada nazionale sino alla stazione
ferroviaria di Ronza, di là si prendeva la vecchia trazzera che attraversava la
montagna di Rossomanno, a me nota per le gite organizzate dal parroco Magno a
visitare le rovine di un antico convento, di un castello quasi scomparso e di
un centro abitato, ridotto a un ammasso di pietrame, forse la greca Magella,
distrutta da Romani di M.C. Marcello nello stesso anno della resa di Siracusa.
Già nella strada asfaltata
cominciai a sentire la stanchezza, perché un'ansia incontenibile mi spingeva ad
affrettare il passo; mi misi addirittura a correre quando sentii lontano il
rumore di un carretto e cercai di raggiungerlo; ma il cavallo andava così
veloce che la distanza aumentava sempre di più, finché sparì dalla mia vista e
non intesi più alcun rumore, se non quello dei miei passi affannati.
Come s'era fatto pesante il sacchetto, specialmente
per quei pochi libri di scuola! Eppure me li sarei caricati tutti se li avessi
avuti. Solo chi non si è trovato nelle mie condizioni non può immaginare il
tormento di essere privo dei libri indispensabili e di dover approfittare di
quelli non sempre accessibili del compagno più comprensivo, che aveva la
fortuna di possederli tutti. Ogni giorno c'era il rischio di non poter
preparare le lezioni in modo da meritare quella votazione alta che mi avrebbe
consentito di continuare gli studi. Eppure riuscivo bene in tutte le materie,
anche la terribile Azzolina aveva stima di me e si preoccupava della mia
salute, vedendomi dimagrito e pallido, ma, quando la classe doveva figurare,
chiamava me a recitare le poesie del suo amato Carducci; ricordo ancora:
"Tra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre
sonanti..."
Per vincere la noia mi ripassai tutte le poesie che
sapevo a memoria. Da allora deriva l'abitudine di memorizzare le poesie che
riempie tutte le ore vuote e le notti insonni della mia vita.
Già ero giunto al culmine della salita e dovevo lasciare la nazionale. Era quella la mulattiera che mi avrebbe portato al paese? Io l'avevo percorsa una volta sola e in senso contrario; ma mi parve la direzione giusta e la imboccai di slancio seguendo la bussola del cuore. Bisognava affrettarsi; il sole era scomparso dietro i monti ed io volevo superare in piena luce le "Pietre Lunghe". Eccoli quegli spuntoni di roccia in fila, strani e minacciosi. Benché mi sforzarsi di non guardarli, ne vedevo le ombre lunghe. Io mi misi a correre per fuggire da quei dannati gaudenti mascherati trasformati in pietre per non aver rispettato la Quaresima. Certo si trattava di una leggenda, ma in quel silenzio il mio cuore ci credeva e quasi scoppiava per la paura; non ero più certo della strada ed ebbi la sensazione atroce di essermi smarrito.
Già era scesa la sera, il
viottolo si distingueva a stento e gli alberi disegnavano ombre sinistre sul
cielo. Eppure io continuavo a camminare con la forza della disperazione:
indietro non ci sarei tornato certamente. L'angoscia stava per vincermi ed ero
sul punto di piangere allorché sentii indistinto il calpestio di bestie da
soma; ripresi a correre: era vero; dei contadini ritardatari si affrettavano a
rientrare a cavallo dei loro muli ed erano del mio paese; parlavano il mio
dialetto, quel dialetto pesante e agreste, che mi parve più carezzevole di una
musica. Ero salvo!
-Zio, - chiamai con tutte le mie forze, -
Aspettatemi!
Uno di loro si trattenne un poco e mi alleggerì del sacchetto e mi disse che il paese era vicino. Io ritrovai il mio vigore e potei seguire il passo delle mule che si faceva sempre più veloce per il presentimento della stalla. D'un tratto dalla Portella di Canalotto scorsi laggiù il paese con le sue case tutte ammassate come un gregge nell'ovile. Tra le ombre della sera e il fumo di tanti focolari dove si preparava la cena riconobbi il vecchio castello, più simile ad una masseria che ad un maniero truce e turrito, i due campanili che svettavano sugli ultimi chiarori del cielo, e le rare lampade pubbliche che disegnavano il reticolo delle strade e si infittivano in un punto, sicuramente il Piano degli Olmi, la piazza. Lì vicino c'era la mia casa e la mia mamma, i miei fratellini, il calore, il pane... E già pregustavo la gioia della sorpresa. Rare volte nella mia vita ho provato una felicità intensa pura e come quella che mi diede in quel momento il mio vecchio paese, la mia Itaca ritrovata, la mia Versilia, la mia Romagna solatia.