CACCIATORI DEL MIO PAESE
di
Francesco Lanza
Ogni sera, al mio paese, a una data ora,
nelle farmacie e in certi caffè specializzati si sentono dei continui colpi di
fucile: sono i cacciatori che ammazzano a tutto spiano lepri e conigli, quaglie
e pernici. La carneficina non finirebbe mai più, tanta è la passione che li
anima. Per fortuna, le cartucce non possono durare in eterno: lentamente i
colpi si fanno più radi, si estinguono, e ognuno se ne va soddisfatto a
dormire, rimandando il seguito all'indomani.
I più bravi si rimettono a sparare nel
sonno, e ne san qualcosa le povere mogli che ogni momento devono alzarsi in
camicia per raccogliere ora questo ora quel pezzo di caccia. La mattina dopo,
il letto si trova pieno di selvaggina, e averne ammazzata tanta senza neppure
saperlo è veramente una bella soddisfazione.
Contrariamente a quanto si potrebbe
credere, tutte queste sparatorie non mettono mai a soqquadro il paese: i
carabinieri continuano a passeggiare con 1'incudine napoleonica sul capo o
sotto il braccio, e nessuno, che non sia dell'arte, se ne dà per inteso.
Trattandosi di cacciatori, esse riguardano soltanto una certa categoria
d'innocenti bestiole, le quali, poverine, hanno un bel da fare per farsi
continuamente ammazzare, e non sanno come meglio accontentare tanta brava
gente.
Il cacciatore va a caccia per la caccia,
per il gusto di scovare la selvaggina, di sparare e di farla cadere senza mai
fallire un colpo. Se non fosse per vedere gli effetti del piombo e per la
soddisfazione del caso, egli per non perdere tempo non raccoglierebbe neppure i
pezzi di caccia abbattuti, dei quali abitualmente non sa che farsi: la loro
carne non gli piace, nessuno a casa sua ne va pazzo, e gli parrebbe di
degradarsi vendendoli. Gli servono soltanto per farne qualche volta un presente
agli amici: ma ogni cacciatore ha almeno una cinquantina d'amici che aspettano
ancora questi famosi futuri, di regola a Natale e a Capo d'anno.
Il vero cacciatore non fa altro che
sparare e trucidare, specialmente quando non ci sono testimoni oculari. È più
facile che ammazzi due conigli facendo finta di sparare che sbagliarne uno solo
appena lasciato partire il colpo; e non si capisce perciò come con tanti
cacciatori in giro, che sparano e ammazzano senza perdersi mai d'animo, ci sia
selvaggina che basti, e come ancora conigli, lepri, pernici e compagnia bella
si ostinino a restare sulla terra. Spesso accade che quando parecchi sono a
caccia insieme, ora l’uno ora l’altro sbagliano con molta facilità il colpo:
per chi ha sparato non c'è dubbio che la colpa è della polvere e della carica,
sensibilissime all'afa, al vento che spira, all'altitudine e via dicendo, ma
gli altri non la bevono mai e sanno benissimo a chi attribuirla, salvo
s'intende a far proprie le identiche ragioni quando a turno è la loro volta di
fallire il colpo. Ne nascono infinite e vivaci discussioni, a tutto vantaggio
della selvaggina, compresa quella già ammazzata e stivata nella carniera, la
quale visto il momento propizio se la squaglia allegramente all’inglese.
Molti cacciatori del mio paese partono
ogni anno per famosi luoghi di caccia, dove la selvaggina è come le mosche,
solo per aumentare il numero delle proprie vittime e battere il record, il
quale così non è mai detenuto da alcuno. L'anno scorso due miei amici sono
andati apposta perfino in Tripolitania, armati fino ai denti, e dopo una
settimana sono tornati con duecentotrentaquattro tra lepri, conigli e pernici
di più sulla coscienza, senza contare le frazioni e i rotti. La impressione fu
catastrofica tra la selvaggina locale, ma per fortuna non appena la notizia si
diffuse si seppe per la verità storica che in realtà i morti non avevano
superato la dozzina. Ci fu un respiro di sollievo.
- Può anche darsi - arrivarono ad
ammettere con un po' di sforzo i miei amici - ma questo non dice niente, perché
dove siamo stati ce n'erano tanti di lepri e conigli, che se avessimo avuto
tempo e volontà non duecentotrentaquattro ma ben duemiladuecentotrentaquattro
ne avremmo potuto uccidere, e non ci sarebbe stato nulla di straordinario
soprattutto per noi.
Tutto questo è perfettamente esatto,
perché un cacciatore che si rispetta non si vede ai fatti, ma a quello che
sarebbe capace di fare, e in quanto ai miei due amici c'è piuttosto da
meravigliarsi come mai non siano tornati dalla Tripolitania con una dozzina di
leoni sulle spalle.
Dal cacciatore per eccellenza che abbiamo
descritto si distingue a occhio nudo il cacciatore di mestiere, che di una
passione, d’un’arte pura quale è la caccia, fa un calcolo ignobile, un motivo
di lucro. Egli se ne va sempre solo, misterioso e guardingo, come uno che abbia
in animo di commettere una cattiva azione, senza quell'apparato rumoroso e
pittoresco che rende così suggestivi, alla partenza e all'arrivo, gli altri
cacciatori; e la sera, dopo che è tornato can la stessa aria di quando è
partito, si vedono penzolare per le zampe all'architrave di certe botteghe due
o tre capi di selvaggina col cartellino del prezzo appuntato a un orecchio o a
un'ala.
Non c'è dubbio che il cacciatore di mestiere
sia il più bravo tiratore del paese, cui nessuno può mettersi alla pari, ma è
altrettanto certo che se egli ogni volta che esce arriva ad ammazzare due, al
massimo tre pezzi di caccia, è già abbastanza. Il fatto è che la selvaggina non
ha affatto simpatia per il cacciatore di mestiere e dev'essere proprio una
disgrazia che vada a cadergli sotto tiro: essa lo subodora a cento miglia di
distanza e lo fugge come un appestato, e piuttosto che lasciarsi cogliere da
lui, preferisce correre in massa a farsi trucidare dai cacciatori passionali,
dai quali se non altro la morte acquista qualcosa di pindarico e di mitologico.
Fra le molte varietà di cacciatori che ci
sono al mio paese, c'è il cacciatore che ammazza sempre della selvaggina e non
riesce mai a trovarla, e il cacciatore che non ammazza mai selvaggina, ma in
cambio trova immancabilmente quella ammazzata e non trovata dall'altro.
Generalmente il primo è un cacciatore di colombi selvatici: ogni giorno,
sull'imbrunire, egli se ne va nei pressi del vecchio convento alle porte del
paese, si apposta dietro un mucchio di pietre, e col fucile spianato aspetta i
colombi che tornano al nido. A ogni stormo che viene egli lascia partire i due
colpi del fucile: sicuro del fatto suo corre a raccogliere i caduti, ma ogni
volta ha voglia di cercare, non gli riesce mai di trovarli. Quando finalmente
si é stancato e si persuade che non c'è altro da fare, se ne torna in paese con
una filza di bestemmie fra i denti. L'indomani mattina, il secondo cacciatore,
senza sbagliare di tanto, col suo bravo fucile sulla spalla se ne va a sua
volta a caccia. Manco a farlo apposta non gli riesce mai d'incontrare neppure
uno sgricciolo, di sparare a una lucertola. Quando finalmente ne ha abbastanza,
egli prende la via del ritorno, e immancabilmente, nei pressi del vecchio
convento, gli capitano tra i piedi i colombi ammazzati dal primo la sera
avanti. Egli, che se l’aspettava, li raccoglie alla chetichella, li mette nella
carniera, e rientra in paese con un'aria mefistofelica e sorniona che fa
montare su tutte le furie l'altro cacciatore mosso alle vedette.
C'è poi il cacciatore di volpi, il quale
si distingue dagli altri perché le volpi si lasciano ammazzare soltanto da lui,
e le signore del paese sono sempre in attesa delle magnifiche pelli, che egli
promette continuamente senza lesinare.
Ma il tipo più interessante è il
cacciatore che passa per tale perché ha dei cani da caccia. Egli ha il fucile
soltanto per essere in carattere perché non si degna mai di sparare un colpo.
Se vuole può starsene comodamente sdraiato nella sua poltrona, e i cani gli
portano la selvaggina fino ai piedi senza che egli si scomodi. I suoi cani
famosi, dai quali si fa sempre seguire in piazza, al caffè, al circolo, lo
rendono una potenza, un cacciatore formidabile del quale non si può fare a meno
nelle grandi partite di caccia. Tutti lo cercano e lo temono, la ascoltano come
un oracolo: quando si ha bisogno di averlo della partita si va a prenotarlo un
mese prima. Con lui bisogna misurare sempre le parole e non perdere mai
d'occhio le distanze: non tanto per lui, quanto per i suoi cani che sono
terribilmente suscettibili e capacissimi di lasciarvi in asso sul più bello.
Questa dei cani da caccia meriterebbe una
descrizione a parte, tanta è l'importanza che ha. Senza tema d'errare si può
dire che basta un cane per fare un cacciatore.
Ogni cacciatore che si rispetti deve
averne non meno di uno, e si può essere sicuri che quello è il primo cane della
terra. Al mio paese i primi cani della terra sono almeno un centinaio. Taluni
asseriscono che il cane assomiglia al cacciatore, del quale rivela l’animo, il
valore e finanche i tratti fisici più caratteristici; invece è tutto al
contrario: è il cacciatore che assomiglia al proprio cane. Voi potete benissimo
conoscere un cacciatore conoscendo il suo cane, e spesso basta chiamare per
nome un cane perché vi risponda il padrone. Il cane fa non solo la fama di
colui che lo possiede, ma lo specializza altresì in questo o in quel ramo della
cinegetica.
Così abbiamo i cacciatori da punta e da
macchia, per non parlare di quelli da taglio, gli specialisti in lepri o in
quaglie, e via dicendo.
Quasi la stessa importanza dei cani, e
talvolta anche di più, hanno i furetti. Al mio paese molti cacciatori sono
onusti di gloria appunto per i loro furetti. Essi generalmente sono
specializzati in conigli, e sono dei cacciatori sedentari, di natura molto
meditativa, tenace e sanguinaria, capaci di stare un giorno intero in vedetta
al disopra di una tana, col fucile abbassato fra le ginocchia e la pipa in
bocca, aspettando che il furetto torni forbendosi con la lingua i baffetti
intrisi di sangue dopo aver scannato e regolarmente lasciato nei più profondi
meandri il coniglio. Allora il cacciatore dal furetto si mette in opera,
trasformandosi in esperto minatore, finché la vittima non venga alla luce.
Molto spesso, invece di farsi scannare, il coniglio scappa da un passaggio
segreto, noto col nome di sventaglio, alle spalle del cacciatore che se ne sta
immobile come una statua, sicuro del fatto suo; oppure il furetto, trovandocisi
bene, non torna più fuori dalla tana, dove resta per giorni e giorni, sordo
alle chiamate, ai suffumigi, alle ambascerie per mezzo di altri furetti, i
quali il più delle volte si lasciano invece subornare, e spesso si dà il caso
che tutti i furetti del paese l'uno dopo l'altro vadano a far compagnia al
primo. Quando un furetto resta nella tana tutto il paese è in subbuglio, si
seguono con ansietà tutte le fasi del recupero, si trasmettono dei bollettini,
si formano squadre volontarie di soccorso, si vivono ore veramente emozionanti.
Finché il reprobo non si decide a tornare o non è ritrovato, la più grande
costernazione regna nella comunità dei cacciatori uniti fra di loro dal più
solidale spirito di corpo.
Dopo quanta s'è detto non ci vuol molto a
capire che ammazzare della selvaggina è soltanto prerogativa dei cacciatori. Se
voi non siete cacciatore è inutile che andiate a caccia: potete avere i
migliori cani, il fucile più potente, la polvere più infallibile, è tempo perso.
Potete girare quanto volete, avrete un bel gridare ai vostri cani: - Prendilo
Tom! piglialo Argante! - essi non prenderanno neppure una mosca, e voi ci
perderete la voce e la lena. Se poi, per caso disperato, sparerete un colpo, ne
sentirete, non si nega, la detonazione; ma non ne vedrete mai gli effetti: i
vostri cani si metteranno a correre, voi correrete con orgasmo, dietro i cani,
e quando sarete arrivati, fermatevi pure e poi sappiatemelo dire.
Il fatto è che la selvaggina tiene nel
massimo disprezzo i profani e si sentirebbe disonorata di farsi ammazzare da
uno di loro. Quando un profano è a caccia, lepri, quaglie, pernici, conigli e
affini si danno la voce, e per un raggio di cento miglia all'intorno la
campagna diventa deserta. Questo spiega anche lo strano fenomeno per cui quando
uno che non c'è mai stato va a qualche partita di caccia coi più famosi
cacciatori, costoro contrariamente alle loro abitudini non incontrano neppure
uno zitto, non sparano un sol colpo o se sparano non colgono mai il segno. Sono
gli effetti del profano, e finché c'è lui la selvaggina se la fa alla larga.
L'unico rimedio sarebbe sopprimere senz'altro il guastafeste, e vedrete che un
giorno o l'altro i cacciatori, i quali ormai non ne possono più, arriveranno a
questo estremo.
Se volete dunque anche voi avere la
voluttà di ammazzare della selvaggina, diventate prima cacciatore. Ma non
crediate che questo sia tanto facile, perché se e vero che per ammazzare della
selvaggina bisogna essere cacciatori, è altrettanto vero che per essere
cacciatori bisogna ammazzare della selvaggina: il che diventa un problema
insolubile.
Francesco Lanza, Il Tevere, 4 ottobre 1928