VIVERE DA STRANIERI - Testimonianze di emigranti valguarneresi

di Monique Selva

(Estratto della tesi di laurea)

 

4.2 Emigranti valguarneresi

Dopo aver descritto brevemente come si progetta e si realizza una ricerca qualitativa, passiamo ad esaminare dei casi concreti attraverso la lettura di alcune testimonianze di emigranti valguarneresi per vedere con gli occhi ed i sentimenti degli intervistati il fenomeno sociale studiato.

 

4.2.1 Raccolta delle testimonianze in rete

Le testimonianze sono state raccolte attraverso Internet, sul sito www.valguarnera.com, nella sezione dedicata al forum, che consente di comunicare via e-mail con i valguarneresi di tutte le parti del mondo in cui vi sia internet. Due delle testimonianze raccolte sono state tratte dal supplemento de La Nouvelle Gazette/La Province, le Journal de Charleroi e le Peuple, del 18 giugno 1996.

Per avviare un processo di avvicinamento con l’intervistato sono entrata a far parte del gruppo iscrivendomi al forum. Per ottenere la piena collaborazione del soggetto, l’intervistatore deve riuscire a stabilire con lui un rapporto di fiducia, come “persona”.[1] Ho spedito loro una e-mail descrivendo lo scopo della ricerca, in cui chiedevo all’intervistato il consenso  a raccogliere la sua testimonianza, gli chiedevo pure di rispondere con sincerità e gli preannunciavo un successivo contatto. L’intento è stato quello di “far parlare”[2] l’intervistato, riuscendo a provocare un fluido racconto nel quale mi sono limitata ad “ascoltare” ed a fare ogni tanto qualche domanda di approfondimento.

Nell’intervista di tipo qualitativo esistono diversi tipi di domande:   

·         domande primarie:[3] (descrittive, strutturali, di contrasto);

·         domande - sonda: sono degli stimoli neutrali che hanno la funzione di incoraggiare l’intervistato ad abbassare le sue barriere difensive e a dare maggiori dettagli sull’argomento.

Ci sono diversi modi per stimolare a rispondere:

·         ripetizioni della risposta o di una sintesi delle ultime risposte;

·         incoraggiamento, espressione di interesse;

·         pausa;

·         richiesta di approfondimento.

Le testimonianze sono state conservate nella sua forma originale e completa, seguendo il criterio della trascrizione integrale,[4] inserendo anche le forme dialettali, gli errori di sintassi, ecc., per rendere più vivace e comunicativa la testimonianza. Infine, per completezza, tutte le testimonianze[5] sono state raccolte nell’Appendice e sono poi state interpretate alla luce dell’approccio sociologico di tipo interazionista.

 

4.2.2 Melina

Melina ha 58 anni. Si è trasferita a Milano subito dopo il matrimonio per seguire il marito. Fa la casalinga, ha due figli ed è felicemente sposata da 30 anni.

 

Ruolo tradizionale della donna-moglie e dell’uomo lavoratore:

 

Io per mio marito sono stata una presenza importantissima, determinante. Lo avrei seguito in capo al mondo perché è questo che una buona moglie deve fare con il marito.

 

Il ruolo femminile inteso in senso tradizionale è ciò che guida Melina e da rilievo alla sua identità.

 

Per lui sono stata una mamma, una sorella, una amica, sono stata la sua famiglia fino all’arrivo dei nostri figli, perché quando parti sei solo, solo con te stesso, la lontananza era troppa e non potevi tornare a Carrapìp tutte le volte che volevi vedere il papà o la mamma, quindi ci facevamo forza tra di noi, ci si affezionava molto di più.

 

Lei vuole essere quello che il marito si aspetta che sia, e crede che senza il suo aiuto probabilmente il marito non avrebbe resistito.

 

Io ero sempre li a casa ad aspettare lui che s’ mazzàva a vita a travagghjàr[6], a fargli trovare la tavola apparecchiata, le ciabatte davanti alla porta e un piatto sempre caldo. Io gli davo conforto nei momenti brutti, io lo cercavo di guidare quando si sentiva sperduto in situazioni difficili da prendere, io lo accoglievo quando era stanco la sera, io lo ascoltavo quando mi raccontava amareggiato le cose brutte che gli dicevano al lavoro, quando era deluso..e tutte queste cose lo facevano legare più a me e me a lui. Era su di me che scaricava le sue tensioni, le sue frustrazioni.

 

Si nota come il ruolo tradizionale della donna-moglie e dell’uomo lavoratore sia condiviso da Melina e come sia, in un certo senso, una condizione quasi naturale, caratterizzata da un forte grado di volontarietà più che un dovere imposto. Ma è davvero così? Melina sceglie davvero il suo ruolo o lei, come tanti altri individui, può essere assimilata ad un ripetitore di modi di pensare e di essere? Se la risposta è positiva, allora il doveroso comportamento da “buona moglie” rientra coerentemente all’interno di una visione consolidata sia della famiglia che, più in generale, delle relazioni sociali. Melina è quindi, in questo senso, culturalmente sottomessa in quanto sa che la sua presenza in quelle vesti è necessaria per la sopravvivenza della famiglia. Questo genere elementare di gerarchia familiare in cui la donna è sottoposta all’uomo, allo stesso tempo, mette la donna in una posizione di forza, per così dire, non agita, ma che si manifesta immediatamente proprio per come la relazione è organizzata. L’uomo ha bisogno di una buona moglie, e la donna sa, per educazione e per esperienza, come esserlo e lo diventa “senza esserne costretta” . E’ un dovere da cui trae prestigio. Da questa condizione deriva l’orgoglio di sentirsi indispensabile.

 

Solitudine e Controllo sociale:

La signora Melina e suo marito erano partiti per Milano e all’arrivo in quella città del Nord avevano compreso cosa volesse dire essere soli.

 

E io mi facevo forza e coraggio, quando lui era a lavorare, dalla mattina alla sera, io restavo a casa da sola, dovevo mandare avanti una famiglia da sola, senza l’aiuto e il consiglio della mamma, della sorella, della nonna o della baby sitter. Il pro era che ero libera, che potevo fare tutto quello che volevo senza dover dare conto a quello che diceva la gente, come in Sicilia, perché tanto non mi conosceva nessuno, però il contro era che ero sola.

 

I modelli di rete familiare cui era stata socializzata non esistono più. La solitudine di Melina non è causata dall’assenza del marito, ma dal fatto che ha cambiato regione e città e, soprattutto, contesto sociale. Il controllo sociale da parte della propria famiglia che in Sicilia la opprimeva, a Milano le sarebbe stato d’aiuto. Melina sperimentò almeno due generi di solitudine che riesce a descrivere in modo efficace:

 

Io restavo a casa da sola, senza l’aiuto e il consiglio della mamma, della sorella, della nonna o della baby sitter.

 

Questo primo tipo di solitudine è personale negli effetti, ma collettiva nelle cause. Nella prima parte del suo pensiero Melina descrive se stessa utilizzando uno stereotipo, quello della casalinga; nella seconda parte spiega che tale solitudine non deriva dal fatto che il marito è al lavoro, ma dal fatto che non può contare su altre figure familiari. A casa sua, in Sicilia, nel bene e nel male, non era mai sola. L’eventuale assenza del marito non era mai così evidente e quindi non pesava come invece pesa a Milano. Se da un lato Melina si accorge che poteva fare tutto quello che voleva

 

senza dover dare conto a quello che diceva la gente,   come in Sicilia, perché tanto non mi conosceva nessuno.

 

dall’altro proprio il fatto di essere sconosciuta era causa del secondo tipo di solitudine, quella che potremo definire sociale. In cuor suo Melina, soprattutto nei primi tempi, avrebbe voluto sopportare volentieri il controllo della cosiddetta famiglia allargata, istituto tipicamente meridionale, ma da questa essere supportata. Si trattava in fondo di uno scambio: sopportazione in cambio di supporto emotivo. Ma, anche in questo caso, la presenza di un certo tipo di controllo derivante dalla frequentazione assidua e reciproca rientra in quegli elementi che fanno in modo che un individuo riconosca e si riconosca in una comunità, quella cioè alla quale appartiene e sente di appartenere. A Milano tutto questo non esiste: a casa, da sola, senza famiglia e senza marito, con intorno una comunità alla quale ancora non appartiene e dalla quale viene percepita e classificata come corpo estraneo.

 

Pregiudizio:

 

Non posso nascondere che passato il momento iniziale dell’euforia, di trasferirsi in una grande città come Milano, questo mi portò a momenti di depressione che poi mi passavano quando la sera eravamo tutti insieme. Perché all’inizio non avevo amici, tutti ci trattavano con diffidenza, ci guardavano dalla testa ai piedi, si giravano quando ci sentivano parlare, ci buttavano sempre battutine sui terroni, che non sapevamo parlare bene l’italiano, che eravamo mafiosi, fannulloni...

 

Melina è una donna del sud, viene dalla Sicilia, moglie di un emigrante, è il tipico soggetto a rischio pregiudizio, quella “tendenza a considerare in modo ingiustificatamente sfavorevole persone che appartengono ad un determinato gruppo sociale”.[7] E’ vittima del tipico stereotipo del siciliano “terrone”, “ignorante”, “mafioso”, “fannullone”. E’ quindi una terrona, per definizione una mafiosa che non sa parlare italiano. Come sottolinea la Perrotta “non fa piacere essere definiti “vecchi”, “handicappati”, “poveri”, “incapaci”, “inferiori”,[8] ma Melina, suo marito, e altri come loro hanno dovuto sopportare anche di peggio. Melina e suo marito abitavano a Milano e le voci che lei sentiva erano di persone che «ci trattavano con diffidenza» perché tra loro che arrivavano da lontano e i milanesi non c’era niente in comune se non quel concetto attorno al quale tutto ruotava, cioè quello di accettazione dello straniero. E straniera era Melina per gli altri, così come gli altri lo erano per lei: era una questione di volontà. Melina doveva essere disponibile a far parte di una nuova comunità, così come quella comunità doveva essere disposta ad accoglierla. Non si trattava di esibire un po’ di pazienza da una parte e un po’ di tolleranza dall’altra, si richiedeva agli attori sulla scena di venirsi incontro e conoscersi.

 

Integrazione:

Melina non si abbatte e cerca una soluzione al problema.

 

Ma con intelligenza abbiamo capito che non dovevamo ascoltarli più di tanto, che dovevamo avere carattere e la volontà di andare avanti per la nostra strada, di non offenderci ma di superare tutto con l’ironia. E cosi con il tempo abbiamo conquistato la loro fiducia, hanno iniziato a fidarsi di noi perché hanno visto che io e mio marito eravamo leali, sinceri, calorosi, lavoratori…

 

Melina e suo marito sono riusciti ad essere considerati come “persone” prescindendo da stereotipi e pregiudizi. L’obiettivo era una sorta di integrazione reciproca, e così quando dice:

 

Ma abbiamo anche capito che per andare d’accordo con loro non dovevamo essere troppo indiscreti, non dovevamo disturbare più di tanto,

 

altro non fa che definire una situazione.

 

Qui l’amicizia viene gestita in maniera diversa, sono più freddi, più riservati.

 

Per esempio racconta il suo stupore

 

quando è nato il mio primo figlio, nessuno dei vicini di casa è venuto a farmi visita e io ci restai malissimo.

 

Questo fatto in Sicilia non sarebbe stato concepibile. Melina, però, non si limita a registrare il dato, ma ne fa tesoro, cioè lo trasforma in un informazione sui modi di pensare e di fare degli altri. In pratica Melina, con l’aiuto del tempo che non è altro che una collezione di esperienze, era riuscita a capire ciò che andava fatto, ma anche ciò che non doveva fare. Infatti racconta:

 

Poi per il secondo figlio non ci restai male perché avevo già capito come funzionava.

 

In un certo senso aveva fatto proprie consuetudini altrui e le interpretava esattamente per quello che erano, senza darne un giudizio preconcetto, perché stava pensando come loro. Se Melina non si fosse messa nei panni di quei milanesi che non erano andati a trovarla, se non avesse smesso di giudicarli negativamente, non avrebbe mai risolto il problema e adesso non avrebbe una sana vita sociale. L’interazionismo simbolico chiama questo meccanismo role-taking cioè la “capacità di conoscere la definizione dell’altro e assumere il suo punto di vista”.[9] Melina riconosce la relatività insita in ogni situazione e che la prospettiva dell’altro è comunicante, come una porta tra due stanze. Melina è una mente flessibile, e a differenza degli individui con mente rigida, riesce a considerare un oggetto da prospettive differenti. Ha fatto l’ingresso in un sottomondo: quello dei “milanesi”.

 

La socializzazione e i figli:

A proposito dei suoi figli Melina ne parla in questi termini:

 

I miei figli invece nati e cresciuti qui si sentono siciliani perché i loro genitori sono siciliani, però non andrebbero mai a vivere in Sicilia, stanno bene qui, sono ambientati bene. Amano la Sicilia per il sole, per il mare, per il cannolo, ma solo per qualche giorno in cui rimangono meravigliati dell’accoglienza dei parenti, degli amici, ma passata l’ebbrezza e l’euforia della novità vogliono ritornare su, perché sentono il peso della mancanza di libertà, il peso di una parentela troppo numerosa, il peso di doveri da fare perché se no lo zio si offende e la nonna ci resta male se non si pranza tutti e 30 insieme.

 

I figli di Melina hanno fatto però esperienze diverse rispetto ai genitori, non solo per il diverso momento  storico-sociale, ma anche per la diversa collocazione territoriale. Essi rifiutano infatti alcune importanti note di sicilianità. Essi “si sentono siciliani” perché sono figli di siciliani ma il fatto di essere comunque cresciuti lontani dalla Sicilia ha fatto di loro, per così dire, dei milanesi, nel senso che “amano la Sicilia per il sole, per il mare, per il cannolo, ma solo per qualche giorno”. A lungo andare, infatti “sentono il peso della mancanza di libertà”, “il peso di una parentela troppo numerosa”, “il peso di doveri da fare perché se no lo zio si offende e la nonna ci resta male”. Dobbiamo ricordare che a parlare dei figli è la madre e non loro stessi, perché altrimenti non si spiegherebbe come mai, se si sentono siciliani, alcune importanti note di sicilianità sono considerate delle seccature. Forse Melina desidera che i suoi figli si sentano siciliani, ma non riesce a negare l’evidenza che non lo sono abbastanza per sopportare quegli elementi di sicilianità che a lei mancavano così tanto nei primi tempi a Milano. Primo tra questi la famiglia, quella trentina di persone che pranzano tutte insieme e “che non è bello se manca qualcuno”. Se è vero che  “sono gli altri a dirci chi siamo e come siamo, e i messaggi introiettati nel corso della socializzazione primaria costituiscono la base su cui tutto il resto viene edificato, forniscono la chiave di lettura che ci fa interpretare i messaggi successivi”,[10] quale tipo di socializzazione primaria hanno interiorizzato i figli di Melina? Quali valori Melina ha trasmesso ai suoi figli? Perché dire socializzazione primaria significa, in definitiva, parlare di educazione. In questo caso sembra che la socializzazione secondaria cioè la scuola, gli amici, il cosiddetto gruppo dei pari, i media, abbia  avuto un’influenza maggiore rispetto all’indirizzo indicato nella fase primaria. Sentirsi siciliani significa appartenere ad un determinato gruppo, con delle caratteristiche proprie che lo individuano. Voler tornare a Milano il prima possibile, perché in Sicilia ci sono “pesi” eccessivi da sopportare, non sembra coerente con un autentico senso d’appartenenza. E’ un fenomeno interessante, e forse pure uguale, quello che si rileva: all’interno di una comunità per quanto piccola, come può essere la famiglia di Melina, vi sono dei membri i quali dovrebbero essere integrati mentre, seppure in maniera attenuata, manifestano pensieri e comportamenti non solo diversi, ma antagonisti. I figli di una madre siciliana, buona moglie di un siciliano emigrante, sono due giovani non solo ben ambientati a Milano, ma che “non andrebbero mai a vivere in Sicilia” e che quando ci vanno per qualche giorno tengono atteggiamenti simili alle persone che i loro genitori avevano incontrato nei primi tempi a Milano: atteggiamenti stereotipati.

 

4.2.3 Calogero

Calogero ha 54 anni, vive a Melbourne da 32 anni. E’ sposato, ha due figli e fa l’infermiere professionale.

 

Stereotipo e pregiudizio:

 

Per tanti anni ho dovuto sopportare che mi insultavano con parole offensive come WOG e DAGO perché non ci calcolavano a noi italiani alla sua pari. Mi dicevano che noi siciliani eravamo troppo gelosi, ignoranti e malviventi.

 

Leggendo il racconto di Melina abbiamo avuto notizia del pregiudizio e degli stereotipi di alcuni milanesi verso di lei e suo marito. Ora vediamo che anche oltre oceano, in Australia, l’opinione verso i siciliani può ricalcare quella sugli emigranti. Il signor Calogero racconta che lo insultavano con parole offensive come ″wog″ e ″dago″. Cosa significano queste due parole? Perché coloro i quali venivano chiamati in quel modo non erano “alla sua pari”? “Wog” è un termine gergale australiano che vuol dire “virus”. Calogero, emigrante valguarnerese, è un virus, cioè portatore di malattie. Naturalmente i virus, come ben sappiamo, tendono ad essere eliminati. “Dago”, invece, dovrebbe suonare come “maledetti stranieri”, oppure semplicemente come “italiano”; e dare dell’italiano a qualcuno, in Australia, equivaleva ad insultarlo pesantemente. Ciò che è interessante rilevare è che il concetto di categoria viene individuato attraverso parole che “tendono ad essere cariche di valore negativo”.[11] Calogero continua l’elenco delle definizioni, aggiungendo che:

 

mi dicevano che noi siciliani eravamo troppo gelosi, ignoranti, malviventi.

 

Possiamo fare riferimento, anche qui, a quello che veniva detto a Melina e cioè:

 

che non sapevamo parlare bene l’italiano, che eravamo mafiosi.

 

A Milano mancava il riferimento alla gelosia, per il resto si tendeva ad essere “più precisi” degli australiani, che preferivano rimanere sul generale. Infatti la malvivenza diventa mafia e l’ignoranza diventa non saper parlare l’italiano. Però gli australiani, in un certo senso, non lasciavano via di fuga a Calogero, utilizzando un marchio di riconoscimento, uno stigma ad ampio spettro. Furono i greci ad usare per primi la parola “stigma” per sottolineare degli aspetti fisici che erano collegati ad una condizione morale censurabile. Questa strategia è utilizzata nel controllo sociale formale, quando lo sguardo non è più diretto verso l’individuo, ma distolto da questo e diretto su categorie sociali considerate a rischio, in quanto probabili portatrici di disordine pubblico. L’emigrante, preso individualmente come categoria sociale, è un elemento di disturbo. Calogero è sotto il controllo dei vicini di casa, dei colleghi di lavoro e delle istituzioni, ma il suo lavoro è comunque utile a quella nazione, che lo scredita e lo controlla. Anche in questo caso con simili affermazioni, si può incorrere nella retorica o nella demagogia, ma se riflettiamo su questo doppio registro del disprezzo e dell’utilità, possiamo capire meglio perché emigranti e autoctoni si sopportano vicendevolmente. Naturalmente c’è una spiegazione di natura economica, che appare evidente trattando delle miniere di carbone in Belgio, quando ci fu un accordo tra il nostro governo e quello belga per far andare a lavorare gli italiani nelle loro miniere in cambio di carbone, e quindi, di energia. A noi però preme indagare le relazioni tra gli individui. Utilità e disprezzo: con queste due parole si può articolare  una frase di cui proveremo a spiegare il senso: l’utilità del disprezzo. Frase a doppia valenza, la prima per gli australiani, la seconda per gli emigranti; in questo caso, Calogero. Per definizione, ci si sente sempre superiori a qualcuno, nel senso che il concetto di superiorità, come anche il suo opposto, è un concetto relativo. Se non c’è nessuno con il quale posso confrontarmi è ben difficile che possa affermare di essergli superiore. Per dichiararsi superiori, si deve individuare qualcuno che possa svolgere efficacemente il ruolo dell’inferiore. Come Melina  anche Calogero in quanto emigrante è individuato come la parte debole e quindi come colui che può e deve recitare un ruolo disprezzato. L’interesse di coloro che cercano un confronto dal quale uscirne vincitori è pertanto verso coloro che sono ritenuti deboli. La debolezza individuale e sociale dell’emigrante è evidente. Egli arriva in una terra che non conosce, se non attraverso notizie necessariamente di seconda mano,[12] in uno stato di bisogno, quindi, è già predisposto a scendere a compromessi, senza la certezza di avere fatto la scelta giusta. In questo senso è la vittima predestinata dei “padroni di casa”.

Manca l’assunzione del punto di vista dell’altro (role-taking), si è privi di una definizione della situazione comune, ci troviamo di fronte all’assenza di una visione critica che conduce ad un esame parziale e distorto del soggetto estraneo, cioè in questo caso dell’emigrante siciliano valguarnerese.  Ecco che l’emigrante, diventa mafioso nella sfera pubblica, troppo geloso in quella privata, ignorante in entrambe. Il soggetto è quindi percepito come un pericolo per la società.

 

Bolla ambientale:                                                                                                                                          

Boorstin[13] introduce l’immagine efficace della bolla ambientale. Calogero la descrive in questo modo:

 

Ma una delle cose che mi faceva sentire a casa erano le canzoni italiane, napoletane, siciliane che sentivamo. Avevano un significato speciale, ricordo ancora il rifugio che ci davano mentre eri malinconico e scrivevi lettere ai parenti rimasti a casa e agli amici. E anche i libri della scuola elementare e media mi davano lo stesso effetto, ancora li conservo.

 

Il senso di questa operazione che sembra simile a quello di certi programmi televisivi quando fanno leva su determinati sentimenti, che si rifanno ai cosiddetti “bei tempi andati”, non ha come motore la nostalgia, ma quella volontà di costruire in luoghi non familiari, delle situazioni familiari, così da riuscire, ad ambientarsi in una realtà nella quale si vive, ma alla quale non si appartiene del tutto.

 

Socializzazione e valori:

 

Una delle differenze più importanti che ho trovato è che la nostra cultura siciliana ci proibiva di dire quello che si pensava, che si vedeva. Mi ricordo che mia madre mi diceva sempre: Calò, sa ch vij vij..gìrat de dda banna e fai finta r nent. (Calogero, qualsiasi cosa vedi.. girati dall’altro lato e fai finta di niente). Oppure : nan t m’scàr ne problema r l’àutr , ma s ‘no d’vèntan macàr i tuwj, (Non ti immischiare nei problemi degli altri, altrimenti diventano anche i tuoi). Quindi io sono arrivato in Melbourne con questa mentalità invece poi ho imparato a dire le cose storte che si vedono, ad essere giusti, anzi la cultura che ho trovato ci godeva a offendere la gente quando era nel torto.

 

Vengono a mancare in Calogero alcuni modelli di socializzazione interiorizzati all’interno della propria famiglia. Notiamo che egli, partecipa ad alcuni modi d’essere della nuova società, ma allo stesso tempo però, ne prende le distanze rimanendo fedele ad altri valori interiorizzati nel corso della sua adolescenza.

 

Io credo di non avere modificato delle cose dell’essere siciliano e non le cambierò mai come: la serietà in famiglia, la parola data con una stretta di mano, si dice in un detto carrapipano: u boi è r’sp’ttàt ppi corna, l’om ppa palora (il bue è rispettato per le corna, l’uomo per la parola). In Sicilia per come ricordo io se non rispettavi la parola data non eri niente, valevi zero come uomo, mentre gli australiani cambiano la parola da un minuto all’altro quando hanno da guadagnare anche per una sciocchezza. Un'altra differenza è il rispetto per le persone più grandi o per chi ha delle posizioni diverse dalle tue: qui si riferiscono tutti col TU, giovani, vecchi, ai dottori, ai maestri , anche al primo ministro, mentre per me mi è difficile dire del tu a certe persone.

4.2.4 Ventura

Ventura ha 58 anni, è partito da Valguarnera nel 1971. E’ sposato e ha 2 figli. Nipote di un minatore.

 

La partenza: scelta “obbligata” e insoddisfazione personale.

Il signor Ventura nel suo breve racconto tratta praticamente solo un aspetto della sua condizione di emigrante: il desiderio di tornare al paese. Per Ventura infatti l’emigrazione è stata ed è rimasta sempre e comunque solo una scelta “obbligata” derivata dalla necessità di far fronte ad una situazione economica estremamente precaria.

 

L’unica cosa che mi faceva stare meglio e che mi faceva sentire meno la lontananza era pensare al giorno in cui tornavo infatti contavo i giorni al rovescio e li tagliavo nel calendario e ricordare tutte le cose che avevo fatto quando ero laggiù. Questo mi faceva trovare un poco di serenità. Il lavoro che era stava l’unica cosa che mi aveva fatto prendere la scelta dell'emigrazione era per me come qualcosa di esterno alla mia vita, non mi riusciva a dare realizzazione o gratificazione, ma era solo qualcosa di temporaneo , come un mezzo per raggiungere  il mio scopo che era quello di ritornare a casa.

 

La miniera:

Il nonno di Ventura lavorava in miniera, ecco come lui lo ricorda:

 

mio nonno prima di lavorare in miniera, lavorava nei campi e la voglia di cambiare era così grande che qualsiasi altro lavoro sarebbe stato più bello, più leggero, anche la miniera. Ma poi quando vedeva i propri compagni morire, si rese conto che non era proprio così.

 

La nostalgia e la corrispondenza con la famiglia:

 

Io penso che dalle lettere che nei primi tempi di emigrazione si mandavano ai cari rimasti in paese si può vedere bene la passionalità che noi siciliani avevamo, il calore che ci univa ai nostri familiari. Nelle lettere raccontavamo i pregi e i difetti della vita quotidiana che svolgevamo, tutte le cose belle ma anche i drammi vissuti così lontani da casa anche se certe volte non dicevamo le cose brutte per non fare dispiacere a casa.

I dispiaceri più frequenti che ho dovuto affrontare erano la mancanza di mettermi in contatto con i familiari perché il telefono lo usavano solo i ricchi e la nostalgia mi dava un dolore fortissimo. Ma con il passare dei mesi, degli anni ho imparato  a convivere con il sentimenti della malinconia e della nostalgia.

 

Il ritorno come unico obiettivo:

Se il concetto di carriera[14] ci aveva permesso di interpretare alcune frasi di Melina e Calogero, Ventura invece essendo

 

rimasto in Francia solo per necessità di tipo economico ma pensando continuamente al ritorno a Valguarnera quando così potevo finalmente ritrovare la mia famiglia, le mie abitudini

 

considera la sua permanenza in Francia come un fatto temporaneo e strumentale. Se leggessimo le parole di questo valguarnerese emigrato in Francia senza sapere nulla di lui, potremmo pensare di essere di fronte a un soldato:

 

l’unica cosa che mi faceva stare meglio e che mi faceva sentire meno la lontananza era pensare al giorno in cui tornavo, infatti contavo i giorni al rovescio e li tagliavo nel calendario e ricordare tutte le cose che avevo fatto quando ero laggiù. Questo mi faceva trovare un poco di serenità.

 

Oppure di essere di fronte a un carcerato.

 

I luoghi della memoria:

Il signor Ventura, tornando al paese a passare le ferie, si sentiva in

 

dovere di andare a visitare il cimitero dove riposava mio padre e altri parenti della famiglia. Questo mi faceva sentire più in contatto con le mie origini e radici.

Una altra tappa obbligatoria che mi dava una grande pace dentro era la visita ai luoghi dove andavo nell’infanzia, gli amici che frequentavo e  la casa dove ero nato

 

Questo “dovere” era però affiancato al piacere di

 

risentire di nuovo i sapori e gli odori della parmigiana che amavo tanto, delle frittelle di riso col miele che mi cucinava mia mamma.

 

Ventura è come se fosse emigrato rimanendo all’interno della sua personale bolla ambientale, senza la volontà di elaborare un progetto di vita alternativo. Egli sembra non pensare alla possibilità di partecipare ai modi di vita di un’altra società. In questo senso, il soggetto annulla uno dei due presupposti necessari all’avviamento di quel meccanismo sociale a due sensi che vede la società di arrivo predisporsi all’accoglienza del nuovo membro e quest’ultimo agire in modo tale da dimostrare la sua volontà di far parte della nuova comunità.

 

Considerazioni:

Si comprende che Ventura vive un’esperienza diversa dai suoi compaesani Melina e Calogero. Essi infatti pur all’interno di un contesto conflittuale caratterizzato dal pregiudizio, dallo stereotipo, dallo stigma, da una solitudine multiforme, dalla mancanza di elementi familiari, dal desiderio di evocarli, dalla difficoltà di definire efficacemente la nuova situazione, “guardano avanti”, hanno una prospettiva, si proiettano nel futuro. Al contrario, il concetto base che accompagna le parole del signor Ventura è quello di una non totale elaborazione della nuova realtà: Ventura, in un certo senso, non ha mai lasciato Valguarnera. Possiamo dire in conclusione che l’emigrazione di Ventura era stata esclusivamente dettata da una condizione di emergenza economica che doveva essere risolta in breve tempo e in maniera efficace, ma che non contiene nessun progetto a lungo termine.

 

4.2.5 Filippo:

Il signor Filippo ha 60 anni, è arrivato in Belgio 40 anni fa. E’sposato, padre di due figli, pensionato.

 

La Rete:

Dalle prime parole del racconto del signor Filippo emerge l’importanza della presenza di una “rete” nella decisione di emigrare.

 

Ci scrivevamo nelle lettere che fuori dal paese al Nord o all’estero si stava bene perche c’era “u travagghj” per il capofamiglia ma anche per i figli, che li pagavano bene e che si stava tranquilli. Anche i parenti che andavano a trovarli tornavano dicendo : “ u saj, cummà, i ma figghj dda ncap stan buwn. I carùs travàgghjan e a stu mìs s cattàn macàr a telev’sìon”.

Allora tutte queste cose ci facevano venire voglia di partire anche noi, perche il piacere di scoprire quel mondo migliore era più forte di tutto, invece “o paìs” non c’era nessuna speranza di trovare un lavoro ben retribuito e che ti mettevano in regola.

 

Questa è radio-emigrante, il passaparola della speranza, il colpo di grazia al desiderio di rimanere in paese. Questa è la “rete”: quelli che sono già sul posto, quelli che stanno guadagnando bene, che hanno trovato la tranquillità economica. Con tali sirene che cantano, come si può resistere? Si verifica una pre-costruzione della realtà. E’ come leggere il giornale o guardare la televisione e trarre da ciò che si è letto o visto abbastanza materiale per pre-figurarsi la situazione, così come sarà. O come sarebbe dovuta essere…

Ma il signor Filippo ci confessa che:

 

prima di raggiungere il posto dove vivo oggi, per un anno ci siamo fermati in provincia di Como dove un cugino di mio padre ci aveva ospitati il tempo di cercare un lavoro e con i soldi del primo stipendio affittare anche noi una stanza dove dormire ma si sa che dopo tre giorni l’ospite puzza come il pesce. 

 

Notiamo qui il mancato effetto positivo della “rete”, che di solito funziona da ammortizzatore sociale. Il signor Filippo usa un modo di dire efficace per comunicare una situazione di disagio, laddove avrebbe anche potuto non presentarsi. Nelle parole dell’emigrante si rileva inoltre una sorta di doppio pregiudizio: uno agito, l’altro subito. Se il signor Filippo si identifica nel pesce che puzza, non è detto che l’ospitante gli abbia davvero comunicato questa sensazione. In altri termini, si potrebbe ipotizzare la presenza nella forma mentis del signor Filippo di un rifiuto all’essere ospite di qualcuno, cioè una sensazione di malessere nel dover accettare il ruolo di colui al quale viene fatta una cortesia. L’ipotesi che possiamo avanzare è che il signor Filippo avesse già costruito la realtà che stava andando a sperimentare. In sintesi, era partito prevenuto, influenzato da un pregiudizio.

L’emigrante Filippo emigra due volte: dal sud Italia al nord Italia e dal nord Italia al Belgio. Volendo rendere soft il distacco dalla sua realtà, passando attraverso un filtro familiare si scontra immediatamente con un atteggiamento emarginante. Troviamo in questo passo una conferma a quanto detto:

 

Siamo partiti con il treno, abbiamo viaggiato per lungo tempo per raggiungere un paesino in provincia di Liegi, in Belgio, dove inizialmente ci hanno ospitato i miei padrini di cresima e dopo ci siamo dovuti arrangiare da soli.

 

Il signor Filippo continua quindi a subire la “rete”. Dopo i parenti di Como, quelli in Belgio. La caratteristica principale della condizione del signor Filippo è la necessità di una continua ridefinizione della situazione. Il signor Filippo evidenzia un rapporto conflittuale con le figure della “rete” familiare. Loro, a quanto pare, sono già “sistemati”. Hanno un lavoro, una casa, dei tempi e degli spazi di vita: soprattutto sono riconoscibili e si riconoscono in quello che sono e in quello che fanno. Il signor Filippo, partito per fame, e per dare alla propria famiglia una qualità di vita decente, si deve confrontare, in prima battuta, con luoghi nuovi in cui soggetti familiari interagiscono con lui da una posizione privilegiata.  Il signor Filippo sperimenta più volte quel senso d’inferiorità che, in qualche modo, ogni emigrante prova lasciando la propria terra, come se partire equivalesse a riconoscerne la natura matrigna.

 

Il motivo della partenza:

 

Perche si partiva? Per fame, per la disperazione di non potere sfamare 5 figli e una moglie.

A me mi piaceva andare a scuola, ero pure bravo ma ho iniziato a lavorare a 14 anni, dopo la scuola media, a quei tempi e a quell’età non avevo scelta, dovevo lavorare con i muratori, se volevo guadagnare qualcosa di serio per aiutare la mia famiglia.

Ho iniziato con 1000 lire al giorno, se ti dico 50 centesimi sembra ancora meno. Ma con i muratori non c’era la possibilità di essere dichiarato, per avere tutti i diritti. All’età di 14 anni si era già grande e non si poteva andare a fare l’apprendista.

Ho abbandonato la mia terra, perché la mia terra mi ha abbandonato.

 

Alla risposta precisa e decisa, “si partiva per fame, per la disperazione di non potere sfamare 5 figli e una moglie”, non corrisponde un’elaborazione altrettanto precisa e netta delle modalità con le quali agire per soddisfare i bisogni. Emerge dalla risposta suddetta il ruolo che il signor Filippo si sentiva addosso, cioè quello del capo-famiglia, responsabile unico.

 

 

Sentimenti contrastanti:

Proviamo a pensare cosa può avere rappresentato attraversare l’Italia da sud a nord per chi, al massimo, da Valguarnera era andato ad Enna. In questi casi si usa l’espressione “sentimenti contrastanti”, cioè uno stato emotivo non facilmente identificabile. Era questo lo stato in cui si trovava il signor Filippo alla vigilia della partenza:

 

L’idea di andare via era abbracciata con eccitazione e felicità. Eravamo contenti di partire per il viaggio,  anche se ho avuto subito il tempo di pentirmi per la qualità del viaggio, giorni su quel treni super affollati dove stavamo anche all’in piedi.

Io e i miei fratelli eravamo contenti perché andavamo alla scoperta, di qualcosa che non conoscevamo, le città, i monumenti, il treno ecc… Ma era anche una emozione mista, da una parte c’era l’avventura pensando al viaggio in treno, tenendo in mente che i miei viaggi a quel punto erano limitati a qualche viaggio per l’ospedale di Enna. Dall’altra parte c’era l’ansia e la preoccupazione di mia madre di non sapere cosa si andava a trovare che diceva “cu sap unna ama jr a f’nìr…”

 

 

 

Pregiudizio:

 

Quindi avevamo grosse difficoltà ad inserirci in un ambiente sconosciuto e diverso dal nostro. Abbiamo sofferto tanto i pregiudizi soprattutto nei lavori, ti guardavano come ti vestiti, come ti comportavi, cosa e come mangiavi per poi insultarti, mentre a scuola appena sbagliavi ti ridevano in faccia. Poi però fortunatamente ci hanno conosciuto meglio e hanno cambiato idea ma solo di noi che eravamo li, non di tutti i siciliani in generale. Si scherza sempre col siciliano = mafioso, ma più per scherzo che per convinzione, non perché lo pensano di quelli che hanno realmente conosciuto ma più per i film che vedono in televisione.

 

Differenze:

 

Una delle differenze incontrate era l’educazione civile e il rispetto per il prossimo, la  gentilezza delle insegnanti o negli ospedali o negli uffici postali, ti salutavano e ringraziavano fino a farti stufare.

 

Filippo, nel relazionarsi con insegnanti, medici, infermieri  e impiegati alle poste, nota delle differenze rispetto al modo in cui era stato socializzato a Valguarnera. Si nota comunque che Filippo nonostante avverta queste differenze e sappia che sia “più educato salutare”, afferma che “ti ringraziavano e salutavano fino a farti stufare”.

 

La difficoltà della lingua:

La lingua è uno degli indicatori di appartenenza culturale[15]. Si potrebbe sostenere che il legame con il paese d’origine sia più saldo se il dialetto rimane la prima lingua appresa, mentre l’integrazione nella nuova società sia migliore se l’emigrante parla il dialetto sempre più sporadicamente.

 

Una delle più importanti difficoltà incontrate è stata la lingua. Noi eravamo abituati a parlare solo in dialetto quindi ce ne è voluto di tempo per iniziare a dialogare con gli altri.

Nella prima esperienza di emigrazione in provincia di Como, ho fatto delle conoscenze con i vicini di casa.

Una volta un amico è scivolato, si è fatto male ad una gamba, non poteva camminare, io andavo a trovarlo tutte le sere, dopo cena.

Il sabato sono stato invitato a cena da loro. La mamma del mio amico mi ha chiesto qualcosa sul  riso, ho risposto subito di si.

Io non avevo capito cosa realmente mi aveva detto, lei parlava solo il dialetto comasco. Poi il mio amico mi ha precisato in italiano che mi aveva chiesto se mi piaceva il “risotto alla milanese”. Era la prima volta che lo mangiavo. Straordinario, forse di cosi buono non ho più mangiato niente o forse è solo la mia memoria che cerca ancora quel momento.

 

La nostalgia e i mezzi di comunicazione:

Anche in Filippo, come in Ventura vi era molta nostalgia per il paese e per i parenti. La corrispondenza epistolare e l’invio dei saluti tramite i compaesani che ritornavano dal paese erano le uniche forme di comunicazione possibile.

 

La nostalgia per il paese e per i parenti rimasti si sentiva tanto, soprattutto nelle feste come Natale o Pasqua, anche se io ero molto giovane e forse sento più nostalgia oggi che allora.

Così per colmare la mancanza ti scrivevi lunghe lettere ogni 15 giorni con i cari rimasti in paese, perché il telefono era troppo caro , era un lusso e non si era abituati a sprecare il denaro guadagnato con il sudore, solo per i casi si urgenza si andava al centralino per fare una veloce telefonata, mentre normalmente si aspettava che occasionalmente le notizie ce le portavano i compaesani dopo un lungo viaggio in paese.

 

La bolla ambientale:

 

Ricordo che molte famiglie si ritrovavano tra di loro per ascoltare la musica, serate in cui il gira dischi distillava le più belle melodie, da: “Cara moglie di nuovo ti scrivo”, a “Marcinelle”, da “Fox Trot della nostalgia” al  “Il treno che viene dal Sud” e tutto il repertorio delle canzoni strappalacrime.

E’ stata tanto determinante la musica per gli emigranti che io tengo una trasmissione di vecchi successi, in una radio locale italiana di Liegi, radio che si può ascoltare anche via Internet.

 

Il ruolo della donna e la sua emancipazione:

 

La donna è stata determinante, sono state i muri delle case degli emigranti, sono state più forti degli uomini in tanti casi, sia fisicamente , crescendo i figli , mantenendo la casa pulita e ordinata , lavorando nello stesso tempo in fabbrica, sia moralmente, la donna faceva sentire l’uomo meno solo , lo aiutava a vivere più serenamente. E inoltre per la donna siciliana è stata una grandissima vittoria. Non era più obbligata a stare a casa, a lavare, stirare, cucinare, ma era praticamente obbligata ad andare a lavorare perche i soldi non bastavano mai e uno stipendio in più faceva sempre comodo. Nei primi tempi del mio arrivo in Belgio, le donne siciliane ( di mia conoscenza) non lavoravano , ma poi col passare del tempo si sono messe a lavorare e per più delle volte più degli uomini, che iniziavano già a pagare la “silicosi”, malattia del minatore. Cosi la donna  iniziava ad uscire da sola, ad essere più autonoma,  ha iniziato a ribellarsi a certe situazioni e a prendere più posizione. In alcuni casi si può dire per fortuna loro, un po’ di giustizia è stata fatta, in altri invece ci hanno guadagnato solo gli avvocati.

 

La socializzazione e i valori:

 

e poi era sconvolgente anche se ero piccolo, perché dovevo lasciare i miei amici, i compagni della scuola, i miei passatempi.

 

Ritroviamo in queste parole il concetto di gruppo dei pari, legato a quello della “socializzazione secondaria”. Se la famiglia, responsabile della socializzazione primaria, parte insieme a lui, gli amici e i compagni di scuola, responsabili di quella secondaria, non partendo con lui, lasciano un vuoto in Filippo.

Ci sono tante abitudini, modi di fare, mentalità  che abbiamo modificato per non fare brutta figura e per migliorarsi, ho sempre cercato di vedere chi faceva meglio di me e ho provato ad imitarlo, anche se non è stato facile, perchè le nostre radici sono troppo forti, quindi ci sono delle usanze, delle tradizioni che non ci abbandoneranno mai. Ad esempio, quando sono nati i miei figli, non ho messo il nome dei miei genitori e cosi i miei genitori si sono offesi e ci considerano troppo moderni di mentalità. Dell’essere siciliano ho mantenuto l’orgoglio,la gelosia, la presunzione, l’essere testardo, cocciuto ma integro, generoso , sempre disponibile ad aiutare gli altri.

Del luogo di residenza invece ho cercato di imparare la cordialità, il rispetto per l’ambiente, il rispettare le regole, le file al supermercato o dal dottore,di essere meno “malandrìn”.

 

La socializzazione dei figli

 

Per i nostri figli tutto è stato più semplice perchè sono nati qui e non hanno incontrato nessuna difficoltà anzi sono fieri di dire che sono siciliani.

Non vogliono assolutamente tornate in paese, solo per le vacanze si, perche ci piace il mare e il sole, ma dopo un paio di settimane sentono nostalgia della loro casa, amici e del posto dove sono nati. Per loro è questa la loro casa.

4.2.6 Antonio[16]

L’esproprio di un destino:

Antonio riferisce che era il primo della classe e che tutti avrebbero voluto che continuasse a studiare:

 

 Ma mio padre non ha voluto. Non aveva i soldi per comprare i quaderni.

 

Qui comincia il racconto di Antonio e, in certo senso, è qui che finisce. La sua vita, da ciò che racconta, non è mai stata la sua. Sognava di aprire una drogheria, ma “mio padre non ha voluto, dovevo coltivare la terra”. Antonio partì nel 1946, in un giorno storico: il 12 ottobre. Ma non ebbe la fortuna di Cristoforo Colombo…

 

La partenza:

 

In quel treno tutto rotto, sentivamo Liège, Namur,  Charleroi... Non sapevamo nulla, se erano delle città o cosa altro? Eravamo tutti ammassati e quando siamo arrivati, c’era un camion, un uomo e una donna ci dissero di salire.

 

Volendo fare un riferimento letterario, il racconto di Antonio sembra uscito da un testo kafkiano. Appare il concetto di “impossibilità della reazione”. Antonio sembra non riuscire a definire la situazione, sembra non trovare gli strumenti per gestire i cambiamenti, appare immobile come un burattino che viene maneggiato da altri. 

Il racconto di Antonio, per quanto breve, è interessante perché vi assumono notevole rilevanza i bisogni primari.

 

Siamo arrivati a Marcinelle, avevamo molta fame, in quei giorni non avevamo mangiato niente”

 

E ancora:

 

I tedeschi lavoravano con noi ma erano meglio che noi, perché quando si alzavano potevano farsi una doccia, noi no.

 

 

 

La carriera:

Però Antonio era stato uno studente modello e sente la necessità di “comprare un piccolo dizionario e un quaderno” dove annotare le parole e le frasi che non capisce. Questo è l’unico momento del racconto in cui il soggetto agisce in vista del raggiungimento di uno scopo. Forse lo stimolo a comprare il dizionario è un modo di riappropriarsi di una vocazione - quella allo studio-  censurata dal padre. O il modo per sfuggire da una condizione socio-economica che mortifica il diritto degli individui ad autodeterminarsi. Antonio smette di studiare, non perché suo padre non vuole, ma perché mancano i soldi per comprare i quaderni. Ecco che Antonio, da emigrante che ha subito un destino, appena ne ha la possibilità si prende una rivincita, per quanto piccola, per quanto simbolica possa essere. Ma sappiamo quanta forza possono avere i simboli. Antonio, dicevamo, diventa attore-soggetto, e compie quell’azione che suo padre non aveva potuto permettersi: scegliere.  Costretto a non studiare, a partire, a lavorare in miniera, ora vuole capire; e comincia dalle parole che gli rimbombano attorno. C’è in questo piccolo dettaglio, che sembra quasi un fatto ovvio, il senso di una vita, che si cela soprattutto in gesti significativi, non necessariamente eclatanti.

 

4.2.7            Giovanni[17]

Il simbolo della Cantina:

Ma dove alloggiavano le migliaia di minatori arrivati in Belgio? Nelle baracche o nella Cantina. Il signor Giovanni, nel suo breve racconto, ce ne parla. La firma sul registro degli stranieri del primo cliente della Cantina risale al 24 aprile del 1947. La Cantina può essere paragonata ai Centri di prima accoglienza che oggi ricevono gli extracomunitari, soprattutto quelli creati nel sud della penisola. Erano, quindi, luoghi di ricovero temporaneo, dove si poteva notare la presenza e la creazione di bolle ambientali.

 

La Cantina serviva anche da luogo di incontro, da salotto, dove si discuteva per ore e ore delle vicende, spesso delle disgrazie della comunità italiana.

Luoghi angusti, dove per ogni “stanza” si contavano almeno otto persone, si trasformavano in salotti grazie al fatto che lì si ritrovavano persone che avevano una origine comune. Proprio questa origine comune andava protetta in quanto era l’unica cosa che permetteva loro di riconoscersi e farsi riconoscere: era orgoglio e vergogna, amore e odio; ma comunque sia era “luogo” dove sentirsi meglio, quasi a casa.

 

 

 

 

 

 

 

4.3 Considerazioni finali:

 

 

L’interazionismo simbolico […] offre concetti che mettendo a fuoco le dinamiche delle trasformazioni, mostrano come avviene il passaggio da una fase all’altra e consentono di cogliere i significati che stanno alla base del cambiamento.[18]

 

 

 

Alcuni concetti dell’ Interazionismo simbolico che mettono in luce il rilievo dei modi di pensare delle “definizioni delle situazioni” in determinati contesti, ci hanno permesso di interpretare le testimonianze di alcuni emigranti valguarneresi. Dalle loro testimonianze emergono i seguenti punti in comune:

·         la maggiore facilità di integrazione delle persone con “mentalità flessibile”.

·         il problema economico come principale fattore push;

·         l’ansia e l’eccitazione di affrontare una nuova realtà;

·         il ruolo fondamentale della donna;

·         lo stereotipo del siciliano “mafioso, ignorante, fannullone…”;

·         il pregiudizio degli autoctoni nei loro confronti;

·         alcuni modelli della socializzazione primaria che contrastano con quelli della socializzazione secondaria;

·         la nostalgia dei propri familiari e della propria terra;

 

 

 

Capitolo 5

 

Il “Nuovo” emigrante

 

 

5.1 Villaggio globale e Globalizzazione

Per la prima volta nella storia, l’economia di mercato ha assunto dimensioni mondiali, sospinta dalla riduzione delle tecniche di produzione, delle comunicazioni e dell’informazione. Con un ritmo sempre più rapido il mondo tende irresistibilmente all’unità.[19]

 

La locuzione “villaggio globale”[20] è stata proposta da Marshall McLuhan, uno studioso delle comunicazioni di massa, nel 1964, nel suo libro Gli strumenti del comunicare in cui, nel passaggio dall’era della meccanica a quella elettrica, ed alle soglie di quella elettronica, analizzava gli effetti di ciascun "medium" o tecnologia sui cambiamenti del modo di vivere dell'uomo. Il mondo nuovo apertosi nel Novecento è per Mc Luhan caratterizzato da una decentralizzazione che sposta il punto primario di interesse e di osservazione (e di finalizzazione) dalla soggettiva visione nella dimensione di villaggio, alla spersonalizzata visione globale. Indicata da taluni come un ossimoro, la locuzione è divenuta di vastissima diffusione al sorgere di nuove tecnologie (tra cui Internet) che consentono  una facilitazione ed un'accelerazione delle comunicazioni umane. In questo senso, spesso senza riferimenti all'originario senso filosofico, la locuzione si applica per mostrare come il mondo si sia ridotto ad un ambito facilmente esplorabile al pari di un villaggio, e che (almeno per la comunicazione) ciascun villaggio ha oggi abbattuto quasi totalmente i suoi confini. Alla locuzione si fa in genere risalire il termine di globalizzazione.

Con il termine globalizzazione si indica il fenomeno di crescita progressiva delle relazioni e degli scambi di diverso tipo a livello mondiale in diversi ambiti osservato a partire dalla fine del XX secolo. Sebbene con questo termine ci si riferisca prevalentemente agli aspetti economici delle relazioni fra popoli e grandi aziende, il fenomeno va inquadrato anche nel contesto dei cambiamenti sociali, tecnologici e politici, e delle complesse interazioni su scala mondiale che, soprattutto a partire dagli anni ottanta, in questi ambiti hanno subito una sensibile accelerazione. Il termine globalizzazione è utilizzato anche in ambito culturale ed indica genericamente il fatto che oggi ci si trova spesso a rapportarsi con le altre culture, sia a livello individuale a causa di migrazioni stabili, sia nazionale nei rapporti tra gli stati.

5.2 Emigranti negli anni’90: alcune testimonianze

Chi è l’emigrante italiano che parte negli anni ’90? Non si può parlare di un tipo solo di emigrante, ma di categorie. C’è ad esempio l’emigrazione dei colletti bianchi, dei manager, e quella di molti giovani del sud Italia, anche laureati, che nonostante gli anni trascorsi e l’assenza delle valige di cartone, ormai sostituite dai trolley, risalgono la penisola e a volte anche parte dell’Europa, spinti non solo dal bisogno economico ma anche dal desiderio di fare esperienze nuove -con una laurea tra le mani- e di fuggire a quello che ritengono un ambiente socio-culturale poco stimolante. Si tratta in questo caso di una fuga consapevole: quella dei cervelli. Il livello di scolarizzazione dei “nuovi” emigranti è più elevato rispetto a quelli degli anni ’60, ma ciò non toglie che alcuni dei “nuovi” emigranti non incontrino difficoltà. A tal proposito analizzeremo le testimonianza di alcuni “nuovi” emigranti valguarneresi.

 

5.2.1 Massimo

Massimo ha 37 anni. Si è laureato a Roma e oggi lavora a Palermo

 

Mente flessibile:

 

Sono cresciuto ascoltando Madonna e Depeche Mode e prima ancora, alla fine degli anni’80 con l’italico Toto Cutugno che non mancava di inneggiare agli spaghetti e a un partigiano come presidente.

Formidabili quegli anni. Alla fine degli anni ‘80 inglese, italiano e siciliano mi apparivano come sfaccettature di un’unica lingua madre.

 

Nonostante amasse e fosse cresciuto mangiando i piatti tipici siciliani, Massimo era propenso a sperimentare nuovi sapori.

 

Insieme al classico panino con la mortadella e piccidati (uno dei dolci tipici valguarneresi) fatti freschi in casa a Natale non disdegnavo inoltre ingurgitare hamburger, hot dog, bibite in lattina e snack delle multinazionali americane, mentre le mie zie e le mie nonne mi dicevano: “Nan t mangiàr st porcari (sch’fèz), fan mal a panza” (Non mangiare queste schifezze, fanno male allo stomaco, alla tua salute).

 

La partenza: perfetta integrazione:

Massimo riferisce che la sua apertura mentale lo porta sin da subito ad integrarsi perfettamente, e senza subire nessun “trauma”, alla nuova realtà.

 

La mia prima “emigrazione” comincia così. Nessun trauma, nessun timore dell’ignoto e perfetta integrazione con gruppi di coetanei simili che più simili non si può, a prescindere dal luogo di nascita e di domicilio fiscale. Bari, Roma,  Londra, Strasburgo e Barcellona. Dal 1986 al 2006 mi sono mosso da una città all’altra e da un paese all’altro (Francia, Inghilterra, Italia Svezia, Spagna, Grecia e Germania) vuoi per completare gli studi e vuoi per fare nuove esperienze lavorative, crescendo dal punto di vista professionale e ovunque mi sono mosso, non ho mai incontrato difficoltà di integrazione, né pregiudizi nei miei confronti.

Identità globale:

Massimo afferma di sentirsi “cittadino del mondo”. Egli dice di aver  compreso  attraverso i mass media, la tv satellitare che non esistono differenze sostanziali tra lui e i giovani che abitano dall’altra parte del mondo e di non condividere dunque, il punto di vista dei suoi zii tornati da Torino o dalla Francia.

 

In tv e al cinema vedevo coetanei dell’altra parte del globo indossare le mie stesse scarpe, le mie stesse t-shirt e la stessa voglia di conoscere, divertirsi e sperimentare. Stesso modo di comunicare, stessi gusti e stesse aspirazioni. Quindi mi resi conto che non ero così diverso dagli altri giovani che abitavano fuori da Valguarnera, così come invece mi era stato raccontato dai miei zii che tornavano da Torino o dalla Francia. E così cominciai con l’inter rail, i concerti,  i campeggi, gli ostelli della gioventù e le vacanze all’estero improvvisate. Il mondo mi appariva dunque come un unico e grande villaggio globale. Perché dunque non fare gli studi nella Capitale (Roma caput mundi), dalla vocazione universale?

 

Il ritorno in Sicilia:

Soltanto una migliore offerta di lavoro, riferisce, lo riporta in Sicilia.Egli non esclude l’idea di andare via nuovamente.

Attualmente lavoro e vivo in Sicilia, a Palermo. Sono ritornato perché ho avuto un ottima offerta di lavoro. E inoltre mi sono sempre piaciuti il clima, l’arte e le bellezze naturali di questa regione. Ritengo che Palermo abbia tutte le caratteristiche per poter essere una delle più importanti città europee del mediterraneo. Ma se un giorno per necessità o per migliorare la vita affettiva, professionale ecc; ecc; dovessi di nuovo spostarmi che ci sarebbe di strano?

 

 

5.2.2 Francesco

Francesco ha 33 anni. Si è laureato a Catania. Fa l’ingegnere a Melbourne. E’ sposato ed ha una figlia.

 

La partenza: un’avventura

La motivazione che induce Francesco ad emigrare è ben lontana da quella di molti suoi compaesani emigrati qualche decennio prima. Fare un’esperienza di vita nuova, afferma, è il suo obiettivo. E’ attirato, però, anche lui da una “rete” familiare e dal fascino di paesaggi diversi dal suo.

 

Sono partito subito dopo la laurea, da solo, per fare una esperienza di vita nuova. Ho deciso di venire in Australia perché avevo qualche parente e perché l’Australia mi affascinava da sempre, soprattutto i paesaggi, la natura in genere.

 

Sentimenti contrastanti:

L’idea di andare via suscita in lui: da una parte eccitazione e dall’altra parte paura, ansia del “nuovo”, di non sapere cosa lo attende.

 

Ovviamente al momento della partenza ero molto eccitato per l’avventura cui andavo incontro  ma allo stesso tempo avevo un po’ di paura, come dice un noto proverbio siciliano: Cu lassa a vècchia pà nova, mal s trova…

 

Le difficoltà iniziali e la soluzione al problema:

Dopo qualche difficoltà iniziale, Francesco comprende che la chiave per una buona integrazione è trovare un equilibrio: accontentarsi.

 

Inizialmente non nascondo che ho avuto un pizzico di difficoltà ad abituarmi ad una nuova situazione: ci sono delle cose che non ti  saranno mai offerte da una terra straniera, come ce ne sono  altre che il tuo paese di origine non ti offre. Accontentarsi è la chiave. Infatti ora mi trovo molto bene. Mi sono anche sposato con una ragazza di origini italiane ma che è nata in Australia e ho una figlia stupenda di nome Amanda.

 

La realizzazione professionale:

 

Dopo qualche mese che ero qui, ho trovato un buon lavoro. Ho svolto per circa cinque anni analista di logistica , mentre adesso mi occupo di ingegneria strutturale in quanto sono laureato in ingegneria civile.

 

5.2.3 Claudio

Claudio ha 27 anni. Vive a Milano e fa l’agente di Polizia dello Stato.

 

Fuga dei cervelli

 

Lasciare la propria terra non è mai stato facile per nessuno, specie per i contadini disacculturati del mezzogiorno che dal secolo scorso hanno affollato navi, treni e carovane alla ricerca dei propri sogni di ricchezza e stabilità. Oggi l'emigrante meridionale accelera invece un fenomeno tutto nuovo, figlio del progresso e della emancipazione antropologica; la fuga dei cervelli. Che sia all'estero o nel settentrione, la maggioranza dei diplomati e laureati del Sud Italia lascia, suo malgrado, le pacifiche cittadine per affrontare una vita caotica e stressante nell'immenso agglomerato urbano delle grandi città industrializzate del Nord. Io sono uno di questi. Vincitore di un concorso indetto dallo Stato per n ° 933 Allievi Agenti della Polizia di Stato, mi sono ritrovato dal 2001 post 11 settembre, con un posto di lavoro che mi garantiva, a soli 20 anni un’ indipendenza economica.

 

Sentimenti contrastanti:

L’ipotesi di allontanarsi da Valguarnera, seppure motivata da un desiderio di indipendenza economica, preoccupa Claudio.

 

La tentazione di sbagliare volutamente il test più importante ai fini dell'assunzione, devo dire che è venuta sia al sottoscritto che ai due miei compaesani presenti in sala ammissioni. Per quanto mi riguarda erano in gioco alcuni fattori, certamente contrastanti, che mi rendevano dubbioso; da una parte la sicurezza rappresentata da un posto di lavoro statale e dall'altra le profonde radici paesane fin troppo radicate, trasmesse dal piccolo contesto in cui ero vissuto. Quel mestiere mi avrebbe portato via dagli affetti più cari e, di conseguenza, sballottato da un capo all'altro della penisola. Lo scetticismo e la preoccupazione in questi casi sono certamente patrimonio del genoma siciliota o comunque dei giovani che costantemente affrontano per la prima volta la vita lavorativa. Qualche mese più tardi ero già parte integrante del sistema-lavoro; dapprima presso la Scuola Allievi Agenti di Foggia per un primo apprendimento dei rudimenti del mestiere, poi una breve parentesi nelle Questure di Enna e Catania. Passarono due anni e l'indipendenza economica rimodellava le mie ambizioni facendo cadere le ultime barriere. L'ultimo ostacolo da affrontare fu la Scuola Allievi Agenti di Vibo Valentia, in Calabria. Sei mesi di corso che avrebbero sicuramente generato in me quelle nuove sensazioni di legalità e giustizia.

 

La socializzazione primaria:

I modelli di socializzazione cui era stato educato Claudio dalla famiglia, contrastavano con quella che, secondo lui, è la mentalità tipica dei siciliani.

 

Alla fine vinse la voglia di rivalsa sulle malelingue, pronte a giurare sulla pessima figura di noi ragazzotti o sulla buona riuscita in nome di chissà quale politico. Sì, perché per il Sud e in generale l'intera nazione, non esiste meritocrazia bensì una sorta di gerarchia dettata dalle conoscenze più o meno influenti. Ciò però incappava con gli ideali di correttezza inculcatimi dalla famiglia e dal rispetto per il lavoro altrui. Vinsi il concorso e diventai Agente della Polizia di Stato con un voto dignitoso e, cosa più importante, frutto di propri mezzi.

 

La tecnologia accorcia le distanze geografiche:

Claudio aveva nostalgia della propria terra, la Sicilia e del proprio paese Valguarnera. Aveva però soprattutto nostalgia dei propri familiari.

 

Furono mesi un po’ difficili, momenti di scoramento dovuti esclusivamente alla mancanza della mia amata Sicilia ma soprattutto dei miei familiari. Difficoltà che presto capii di poter riuscire a colmare grazie al telefono o meglio al cellulare che mi permetteva di rintracciare e di essere rintracciato 24 ore su 24, grazie alla facilità con cui si può colmare una lunga distanza oggi e cioè con l’aereo che chiunque ormai si può permettere evitando di mangiare due sere consecutive al pub o in pizzeria.

 

 

Il sogno di ritornare:

Claudio nonostante si sia integrato bene nella nuova realtà, si ripropone di ritornare in Sicilia.

 

 Finito il corso fui dapprima assegnato alla Questura di Milano e poi alla Polizia Ferroviaria dello stesso capoluogo lombardo. "Un classico", pensai; "un siciliano in Lombardia". Tornò lo scetticismo, pur attenuato dalla convinzione di un ritorno, secondo i regolamenti ministeriali, nella mia terra di origine. Non sarà certamente un Palermo - Milano sola andata, mi ripromisi.

 

Mente flessibile:

La sua apertura mentale lo porta a trasformare le “diversità” degli “altri” in ricchezza. Claudio si rende conto che alcuni elementi interiorizzati nel corso della socializzazione primaria hanno dei limiti. Egli però, non si annulla come persona e cerca di trasmettere a chi gli sta accanto (ai milanesi) alcuni dei propri valori che egli ritiene essere positivi.

 

Oggi è grazie al confronto evidente tra le mie radici meridionali con quelle giornaliere del nord a rendermi più ricco di idee. Tutta quella paura, quel timore che provavo prima di partire, presto passò. Vivendo a contatto con un ‘altra realtà, per mia fortuna, una serie di fattori casuali mi hanno portato ad essere più aperto di mentalità e molto più propenso ad accettare quelli che sono i limiti della nostra cultura, cercando sempre di inculcare a chi mi sta accanto, i valori positivi della mia terra. Oggi più di ieri, credo che il mezzogiorno debba comprendere quale sarà in futuro il prezzo da pagare se, come purtroppo credo, si continuerà a dipendere dal più produttivo settentrione. Nello specifico, l'esperienza milanese mi ha condotto al discernimento e all'apertura mentale che le fitte nebbie dell'ozio paesano aveva celato.

 

 

5.3 Considerazioni finali:

Dall’analisi delle testimonianze di alcuni “nuovi” emigranti valguarneresi è emerso che le loro esperienze di vita hanno pochi punti in comune con quelle dei loro compaesani emigrati qualche decennio prima. Si tratta infatti di giovani laureati, professionalmente realizzati, che non hanno incontrato notevoli difficoltà nell’integrarsi nella nuova realtà e che non hanno rilevato particolari pregiudizi nei loro confronti.

Amano confrontarsi con gli autoctoni, utilizzando le diversità per crescere e arricchirsi ulteriormente.

 

·        Massimo si sente “cittadino del mondo”. E’ a casa propria ovunque. Ritorna in Sicilia per una migliore offerta di lavoro ma non esclude l’idea di partire nuovamente.

 

·       Francesco, nonostante sostenga che ci siano delle cose che una terra straniera non potrà mai offrire, sviluppa un progetto di investimento, sia economico che affettivo, nel paese d’adozione, lavorando come ingegnere e sposandosi.

 

 

·         Claudio sente maggiormente, rispetto a Massimo e Francesco, il distacco dalla propria terra e dalla propria famiglia. Egli cerca di trasmettere agli “altri” i valori positivi della Sicilia, pur riconoscendone allo stesso tempo alcuni limiti. Nonostante sia integrato molto bene, non esclude l’idea di trasferirsi nuovamente in Sicilia.

 

 

 

 

Conclusione

 

 

Lo scopo principale di questo lavoro era quello di conoscere come alcuni emigranti valguarneresi hanno percepito ed elaborato il distacco dal proprio paese. Sicuramente vi erano molti modi per avvicinarsi a questo obiettivo, ma quello migliore è sembrato quello di lasciar parlare chi ha vissuto questa esperienza. Entrare in contatto con punti di vista diversi dal nostro è stata un’esperienza eccitante, in grado di rendere più vasto il senso della nostra esistenza. Conoscenza è sempre arricchimento, in qualunque forma essa sia. Dalle testimonianze degli emigranti valguarneresi sono emerse le difficoltà di integrazione nel paese di accoglienza, le difficoltà create da alcune differenze culturali, gli stereotipi e i pregiudizi nei loro confronti, ed è emersa pure la maggiore facilità di integrazione degli individui con mente flessibile, capaci di cogliere la relatività delle proprie definizioni.

Dopo questa analisi, mi preme dire che in un momento storico come quello attuale, nell’era della globalizzazione in cui sembra non vi siano più ostacoli agli spostamenti, in cui ogni grande città è popolata da una miscela di etnie, idiomi, culture, risulta fondamentale guardare fuori dal proprio guscio. Ogni persona, ogni luogo, ogni situazione ci plasma continuamente, ci trasmette sensazioni, ci fa riflettere, ci aiuta a costruire giorno dopo giorno, la nostra identità, portandoci a compiere delle scelte piuttosto che altre, a dare importanza a certi valori piuttosto che ad altri. Il punto di equilibrio, a mio avviso, sta nel mantenere la propria unicità, le proprie tradizioni e la propria cultura, senza disdegnare quelle degli altri. Occorrerebbe far proprio il concetto di “pensiero meridiano” proposto da Franco Cassano:[21] il Sud non ha solo da imparare dal Nord, dai paesi cosiddetti sviluppati, ma ha anche qualcosa da insegnare; e quindi il suo destino non deve essere quello di scomparire per diventare Nord.

 

 

Appendice

 

Testimonianze di emigranti valguarneresi.[22]

 

 

Testimonianza di Filippo, 60 anni.

Ho 60 anni e vivo in Belgio. Sono sposato e ho due figli.

Adesso sono in pre - pensionamento ma ho lavorato una vita in fabbrica come saldatore  e ancora prima in paese come minatore e poi come muratore. Mio padre era costretto a mandarmi in miniera e a farmi sottostare a quell’inferno, anche sapendo che u pirraturi ci trattava male, perché con cinque figli da sfamare, tutti dovevamo darci da fare.

Prima di raggiungere il posto dove vivo oggi, per un anno ci siamo fermati in provincia di Como dove un cugino di mio padre ci aveva ospitati ma si sa che dopo tre giorni l’ospite puzza come il pesce. Siamo partiti con il treno, abbiamo viaggiato per lungo tempo per raggiungere un paesino in provincia di Liegi, in Belgio, dove inizialmente ci hanno ospitato i miei padrini di cresima e dopo ci siamo dovuti arrangiare da soli.

Era settembre del 1967, prima che a Valguarnera si incominciasse a vedere il progresso dei soldi investiti dai paesani emigrati in Svizzera, Germania, Francia, Belgio etc.

Si era una famiglia da 7 persone: mio padre, mia madre, mio fratello il più grande Sebastiano che si era sposato ed era partito per l’Australia nel 1959 per seguire i genitori della moglie, la mia sorella più grande Angela che era 21 enne, io, dopo un altro fratello Salvatore di 16 anni, un’altra Filippina di 13 anni.

Perche si partiva? Per fame, per la disperazione di non potere sfamare 5 figli e una moglie.

A me mi piaceva andare a scuola, ero pure bravo ma ho iniziato a lavorare a 14 anni, dopo la scuola media, a quei tempi e a quell’età non avevo scelta, dovevo lavorare con i muratori, se volevo guadagnare qualcosa di serio per aiutare la mia famiglia.

Ho iniziato con 1000 lire al giorno, se ti dico 50 centesimi sembra ancora meno. Ma con i muratori non c’era la possibilità di essere dichiarato, per avere tutti i diritti. All’età di 14 anni si era già grande e non si poteva andare a fare l’apprendista.

Ho abbandonato la mia terra, perché la mia terra mi ha abbandonato. L’idea di andare via era abbracciata con eccitazione e felicità. Eravamo contenti di partire per il viaggio,  anche se ho avuto subito il tempo di pentirmi per la qualità del viaggio, giorni su quel treni super affollati dove stavamo anche all’in piedi.

Io e i miei fratelli eravamo contenti perché andavamo alla scoperta, di qualcosa che non conoscevamo, le città, i monumenti, il treno ecc… Ma era anche una emozione mista, da una parte c’era l’avventura pensando al viaggio in treno, tenendo in mente che i miei viaggi a quel punto erano limitati a qualche viaggio per l’ospedale di Enna. Dall’altra parte c’era l’ansia e la preoccupazione di mia madre di non sapere cosa si andava a trovare che diceva “cu sap unna ama jr a f’nìr…”

E poi era sconvolgente anche se ero piccolo, perche dovevo lasciare i miei amici, i compagni della scuola, i miei passatempi.

Eravamo attratti dalla voglia di guadagnare e da tutto quello che ci raccontavano o che ci mandavano a dire quelli che se ne erano andati prima di noi, alcuni parenti o vicini di casa. Ci scrivevamo nelle lettere che fuori dal paese al Nord o all’estero si stava bene perche c’era “u travagghj” per il capofamiglia ma anche per i figli, che li pagavano bene e che si stava tranquilli. Anche i parenti che andavano a trovarli tornavano dicendo : “ u saj, cummà, i ma figghj dda ncap stan buwn. I carùs travàgghjan e a stu mìs s cattàn macàr a telev’sìon”.

Allora tutte queste cose ci facevano venire voglia di partire anche noi, perche il piacere di scoprire quel mondo migliore era più forte di tutto, invece “o paìs” non c’era nessuna speranza di trovare un lavoro ben retribuito e che ti mettevano in regola.

Quindi avevamo grosse difficoltà ad inserirci in un ambiente sconosciuto e diverso dal nostro. Abbiamo sofferto tanto i pregiudizi soprattutto nei lavori, ti guardavano come ti vestiti, come ti comportavi, cosa e come mangiavi per poi insultarti, mentre a scuola appena sbagliavi ti ridevano in faccia. Poi però fortunatamente ci hanno conosciuto meglio e hanno cambiato idea ma solo di noi che eravamo li, non di tutti i siciliani in generale. Si scherza sempre col siciliano = mafioso, ma più per scherzo che per convinzione, non perché lo pensano di quelli che hanno realmente conosciuto ma più per i film che vedono in televisione.

Una delle differenze incontrate era l’educazione civile e il rispetto per il prossimo, la  gentilezza delle insegnanti o negli ospedali o negli uffici postali, ti salutavano e ringraziavano fino a farti stufare. Una delle più importanti difficoltà incontrate è stata la lingua. Noi eravamo abituati a parlare solo in dialetto quindi ce ne è voluto di tempo per iniziare a dialogare con gli altri.

Nella prima esperienza di emigrazione in provincia di Como, ho fatto delle conoscenze con i vicini di casa.

Una volta un amico è scivolato, si è fatto male ad una gamba, non poteva camminare, io andavo a trovarlo tutte le sere, dopo cena.

Il sabato sono stato invitato a cena da loro. La mamma del mio amico mi ha chiesto qualcosa sul  riso, ho risposto subito di si.

Io non avevo capito cosa realmente mi aveva detto, lei parlava solo il dialetto comasco. Poi il mio amico mi ha precisato in italiano che mi aveva chiesto se mi piaceva il “risotto alla milanese”. Era la prima volta che lo mangiavo. Straordinario,forse di cosi buono non ho più mangiato niente o forse è solo la mia memoria che cerca ancora quel momento. Ci siamo integrati piano piano a scuola e per le strade giocando con gli altri ragazzini.

La nostalgia per il paese e per i parenti rimasti si sentiva tanto, soprattutto nelle feste come Natale o Pasqua, anche se io ero molto giovane e forse sento più nostalgia oggi che allora.

Così per colmare la mancanza ti scrivevi lunghe lettere ogni 15 giorni con i cari rimasti in paese, perché il telefono era troppo caro , era un lusso e non si era abituati a sprecare il denaro guadagnato con il sudore, solo per i casi si urgenza si andava al centralino per fare una veloce telefonata, mentre normalmente si aspettava che occasionalmente le notizie ce le portavano i compaesani dopo un lungo viaggio in paese. Ricordo infatti che molte famiglie si ritrovavano tra di loro per ascoltare la musica, serate in cui il gira dischi distillava le più belle melodie, da: “Cara moglie di nuovo ti scrivo”, a “Marcinelle”, da “Fox Trot della nostalgia” al  “Il treno che viene dal Sud” e tutto il repertorio delle canzoni strappalacrime.

E’ stata tanto determinante la musica per gli emigranti che io tengo una trasmissione di vecchi successi, in una radio locale italiana di Liegi, radio che si può ascoltare anche via Internet.

La donna è stata determinante, sono state i muri delle case degli emigranti, sono state più forti degli uomini in tanti casi, sia fisicamente , crescendo i figli , mantenendo la casa pulita e ordinata , lavorando nello stesso tempo in fabbrica, sia moralmente, la donna faceva sentire l’uomo meno solo , lo aiutava a vivere più serenamente. E inoltre per la donna siciliana è stata una grandissima vittoria. Non era più obbligata a stare a casa, a lavare, stirare, cucinare, ma era praticamente obbligata ad andare a lavorare perche i soldi non bastavano mai e uno stipendio in più faceva sempre comodo. Nei primi tempi del mio arrivo in Belgio, le donne siciliane ( di mia conoscenza) non lavoravano , ma poi col passare del tempo si sono messe a lavorare e per più delle volte più degli uomini, che iniziavano già a pagare la “silicosi”, malattia del minatore. Cosi la donna  iniziava ad uscire da sola, ad essere più autonoma,  ha iniziato a ribellarsi a certe situazioni e a prendere più posizione.

In alcuni casi si può dire per fortuna loro, un po’ di giustizia è stata fatta, in altri invece ci hanno guadagnato solo gli avvocati.

Per quanto riguarda gli amici, non ci sono differenze, abbiamo amici e conoscenti da tutte le parti, quando ti trovi bene con una persona non importa da dove viene.

Ci sono tante abitudini , modi di fare, mentalità  che abbiamo modificato per non fare brutta figura e per migliorarsi, ho sempre cercato di vedere chi faceva meglio di me e ho provato ad imitarlo, anche se non è stato facile, perche le nostre radici sono troppo forti, quindi ci sono delle usanze, delle tradizioni che non ci abbandoneranno mai. Ad esempio, quando sono nati i miei figli, non ho messo il nome dei miei genitori e cosi i miei genitori si sono offesi e ci considerano troppo moderni di mentalità.

Dell’essere siciliano ho mantenuto l’orgoglio,la gelosia, la presunzione, l’essere testardo, cocciuto ma integro, generoso , sempre disponibile ad aiutare gli altri.

Del luogo di residenza invece ho cercato di imparare la cordialità, il rispetto per l’ambiente, il rispettare le regole, le file al supermercato o dal dottore,di essere meno “malandrìn”.

La situazione oggi è buonissima, ci godiamo finalmente i nostri nipotini e ogni tanto si ritorna in paese per le ferie. Crediamo di essere inseriti abbastanza bene , almeno all’occhio sociale,anche se per noi è un dilemma, noi siamo in via di mezzo, quando siamo qui ci sentiamo siciliani, quando siamo in Sicilia ci sentiamo più vicini ai belgi, poiché  se non abbiamo più la mentalità siciliana, non abbiamo ancora totalmente la mentalità belga, perciò siamo stranieri ovunque. Per i nostri figli tutto ha  stato più semplice perche sono nati qui e non hanno incontrato nessuna difficoltà anzi sono fieri di dire che sono siciliani.

Non vogliono assolutamente tornate in paese, solo per le vacanze si, perche ci piace il mare e il sole, ma dopo un paio di settimane sentono nostalgia della loro casa, amici e del posto dove sono nati. Per loro è questa la loro casa.

 

Testimonianza di Melina, 58 anni.

“Io essendo una tra le poche donne iscritte al forum ti parlo di quello che è stata la donna per un emigrante.

Io per mio marito sono stata una presenza importantissima, determinante. Lo avrei seguito in capo al mondo perché è questo che una buona moglie deve fare con il marito. Per lui sono stata una mamma, una sorella, una amica, sono stata la sua famiglia fino all’arrivo dei nostri figli, perché quando parti sei solo, solo con te stesso, la lontananza era troppa e non potevi tornare a Carrapìp tutte le volte che volevi vedere il papà o la mamma, quindi ci facevamo forza tra di noi, ci si affezionava molto di più. Io ero sempre li a casa ad aspettare lui che s mazzàva a vita a travagghjàr, a fargli trovare la tavola apparecchiata, le ciabatte davanti alla porta e un piatto sempre caldo. Io gli davo conforto nei momenti brutti, io lo cercavo di guidare quando si sentiva sperduto in situazioni difficili da prendere, io lo accoglievo quando era stanco la sera, io lo ascoltavo quando mi raccontava amareggiato le cose brutte che gli dicevano al lavoro, quando era deluso..e tutte queste cose lo facevano legare più a me e me a lui. Era su di me che scaricava le sue tensioni, le sue frustrazioni. E io mi facevo forza e coraggio, quando lui era a lavorare, dalla mattina alla sera, io restavo a casa da sola, dovevo mandare avanti una famiglia da sola, senza l’aiuto e il consiglio della mamma, della sorella, della nonna o della baby sitter. Il pro era che ero libera, che potevo fare tutto quello che volevo senza dover dare conto a quello che diceva la gente perché tanto non mi conosceva nessuno, però il contro era che ero sola. Non posso nascondere che passato il momento iniziale dell’euforia, di trasferirsi in una grande città come Milano, questo mi portò a momenti di depressione che poi mi passavano quando la sera eravamo tutti insieme. Perché all’inizio non avevo amici, tutti ci trattavano con diffidenza, ci guardavano dalla testa ai piedi, si giravano quando ci sentivano parlare, ci buttavano sempre battutine sui terroni, che non sapevamo parlare bene l’italiano, che eravamo mafiosi.

Ma con intelligenza abbiamo capito che non dovevamo ascoltarli più di tanto, che dovevamo avere carattere e la volontà di andare avanti per la nostra strada, di non offenderci ma di superare tutto con l’ironia.

E cosi con il tempo abbiamo conquistato la loro fiducia, hanno iniziato a fidarsi di noi perché hanno visto che io e mio marito eravamo leali, sinceri, calorosi.. ma abbiamo anche capito che per andare d’accordo con loro non dovevamo essere troppo indiscreti, non dovevamo disturbare più di tanto. Qui l’amicizia viene gestita in maniera diversa, sono più freddi, più riservati,pensa che quando è nato il mio primo figlio, nessuno dei vicini di casa è venuto a farmi visita e io ci restai malissimo, poi per il secondo figlio non ci restai male perché avevo già capito come funzionava. I miei figli invece nati e cresciuti qui si sentono siciliani perché i loro genitori sono siciliani, però non andrebbero mai a vivere in Sicilia, stanno bene qui, sono ambientati bene. Amano la Sicilia per il sole, per il mare, per il cannolo, ma solo per qualche giorno in cui rimangono meravigliati dell’accoglienza dei parenti, degli amici, ma passata l’ebbrezza e l’euforia della novità vogliono ritornare su, perché sentono il peso della mancanza di libertà, il peso di una parentela troppo numerosa, il peso di doveri da fare perché se no lo zio si offende e la nonna ci resta male se non si pranza tutti e 30 insieme”.

 

Testimonianza di Calogero, 54 anni.

“ Mi chiamo Calogero, il nome di mio nonno, ho 54 anni e vivo a Melbourne in Australia. Sono emigrato 32 anni fa quindi si può dire che ho passato tutta la adolescenza a Valguarnera ma purtroppo per mancanza di lavoro sono dovuto partire. Qui c’èra già mio fratello che mi diceva che tutto era bellissimo e per questo ho deciso di venire in Australia.Per tanti anni ho dovuto sopportare che mi insultavano con parole offensive come WOG e DAGO perché non ci calcolavano a noi italiani alla sua pari. Mi dicevano che noi siciliani eravamo troppo gelosi, ignoranti e malviventi.

Una delle differenze più importanti che ho trovato è che la nostra cultura siciliana ci proibiva di dire quello che si pensava, che si vedeva. Mi ricordo che mia madre mi diceva sempre: Calò, sa ch vij vij...gìrat de dda banna e fai finta r nent, ( Calogero, qualsiasi cosa vedi girati dall’altro lato e fai finta di niente). Oppure : nan t m’scàr ne problema r l’àutr , ma s’no d’vèntan macàr i tuwj, ( Non ti immischiare nei problemi degli altri, altrimenti diventano anche i tuoi). Quindi io sono arrivato in Melbourne con questa  mentalità invece poi ho imparato a dire le cose storte che si vedono, ad essere giusti, anzi la cultura che ho trovato ci godeva a offendere la gente quando era nel torto. Poi, noi si pensava a lavorare per crearci un futuro, per comprare una casa, mentre gli australiani pensavano solo per oggi. Ma una delle cose che mi faceva sentire a casa erano le canzoni italiane, napoletane, siciliane che sentivamo. Avevano un significato speciale, ricordo ancora il rifugio che ci davano mentre eri malinconico e scrivevi lettere ai parenti rimasti a casa e agli amici. E anche i libri della scuola elementare e media mi davano lo stesso effetto, ancora li conservo e quando sistemo la cantina e li sfoglio mi escono le lacrime perché penso ai bei tempi passati al paese. Io credo di non avere modificato delle cose dell’essere siciliano e non le cambierò mai come: la serietà in famiglia, la parola data con una stretta di mano, si dice in un detto carrapipano: U boi è r’sp’ttàt ppi corna, l’om ppa palora (il bue è rispettato per le corna, l’uomo per la parola). In Sicilia per come ricordo io se non rispettavi la parola data non eri niente, valevi zero come uomo, mentre gli australiani cambiano la parola da un minuto all’altro quando hanno da guadagnare anche per una sciocchezza. Un'altra differenza è il rispetto per le persone più grandi o per chi ha delle posizioni diverse dalle tue: qui si riferiscono tutti col TU, giovani, vecchi, ai dottori, ai maestri , anche al primo ministro, mentre per me mi è difficile dire del tu a certe persone”.

 

Testimonianza di Ventura, 58 anni.

“Sono partito dal paese a 22 anni per fare una vita che mi gratificasse di più ma non fu così. Mi mancavano i miei parenti e scrivevo lettere. Io penso che dalle lettere che nei primi tempi di emigrazione si mandavano ai cari rimasti in paese si può vedere bene la passionalità che noi siciliani avevamo, il calore che ci univa ai nostri familiari. Nelle lettere raccontavamo i pregi e i difetti della vita quotidiana che svolgevamo, tutte le cose belle ma anche i drammi vissuti così lontani da casa anche se certe volte non dicevamo le cose brutte per non fare dispiacere a casa.I dispiaceri più frequenti che ho dovuto affrontare erano la mancanza di mettermi in contatto con i familiari perché il telefono lo usavano solo i ricchi e la nostalgia mi dava un dolore fortissimo. Ma con il passare dei mesi, degli anni ho imparato  a convivere con il sentimenti della malinconia e della nostalgia. Sono rimasto in Francia solo per necessità di tipo economico ma pensando continuamente al ritorno a Valguarnera, quando cosi potevo finalmente ritrovare la mia famiglia, le mie abitudini, cosi potevo risentire di nuovo i sapori e gli odori della parmigiana che amavo tanto, delle frittelle di riso col miele che mi cucinava mia mamma.

L’unica cosa che mi faceva stare meglio e che mi faceva sentire meno la lontananza era pensare al giorno in cui tornavo infatti contavo i giorni al rovescio e li tagliavo nel calendario e ricordare tutte le cose che avevo fatto quando ero laggiù. Questo mi faceva trovare un poco di serenità. Il lavoro che era stava l’unica cosa che mi aveva fatto prendere la scelta dell'emigrazione era per me come qualcosa di esterno alla mia vita, non mi riusciva a dare realizzazione o gratificazione, ma era solo qualcosa di temporaneo , come un mezzo per raggiungere  il mio scopo che era quello di ritornare a casa. E pensare che ero partito per far qualcosa di lavoro che oltre a darmi i soldi, mi piaceva, mi rendeva felice. Ho fatto la stessa fine di mio nonno che prima di lavorare in miniera, lavorava nei campi e la voglia di cambiare era così grande che qualsiasi altro lavoro sarebbe stato più bello, più leggero, anche la miniera. Ma poi quando vedeva i propri compagni morire, si rese conto che non era proprio così. E così, quando tornavo  a casa per le ferie mi sentivo il dovere di andare a visitare il cimitero dove riposava mio padre e altri parenti della famiglia. Questo mi faceva sentire più in contatto con le mie origini e radici. Una altra tappa obbligatoria che mi dava una grande pace dentro era la visita ai luoghi dove andavo nell’infanzia, gli amici che frequentavo e , la casa dove ero nato. Quando ci incontravamo con gli altri emigranti durante queste passeggiate nelle vie del paese certe volte ci chiedevamo se avevamo fatto bene ad emigrare, perché respirando quella aria ci dimenticavamo gli stenti, le difficoltà economiche che avevamo prima dell'emigrazione e che ci aveva costretti a partire.”

 

Testimonianza di Pina, 55 anni.           

“Per me e mio marito, l’emigrazione era l'unica occasione che potevamo  sfruttare per  migliorare le nostre condizioni di vita.

La decisione raramente era il frutto di una scelta spensierata e felice, ma fu molto dura da prendere perché sapevamo che  il prezzo da pagare sarebbe stato alto. Nonostante tutto abbiamo affrontato le difficoltà con coraggio, con la speranza che un giorno saremmo ritornati nella nostra bella Sicilia. Con il passare degli anni, però, ci furono dei cambiamenti: abbiamo cominciato ad adattarci al nuovo ambiente sociale, cercavamo di imparare a convivere con la diversità degli usi e dei costumi, abbiamo imparato la lingua e le abitudini di vita e anche se continuavamo a rimpiangere il nostro paese natale, il cibo e gli odori della nostra infanzia e coltivavamo la speranza del ritorno in Sicilia, non vivevamo più la nostra condizione di emigrante in modo negativo, ma anzi ci impegnavamo per migliorare la nostra integrazione. A noi non mancavamo le amicizie, che anzi erano molto solide, ma le persone che frequentavamo erano quasi tutte italiane, e provenivano in una buona percentuale da Valguarnera stessa. Con gli anni ci siamo accorti  che se da un lato questa situazione ci aiutava a sconfiggere la nostalgia di casa, dall'altro ci portava a una chiusura verso le persone del Paese ospitante. Non posso nascondere che  alcune volte sembrava che avevamo una perdita di identità, non ci sentivamo a casa né quando eravamo lì né quando tornavamo al paese. Pensavamo: sarà più giusto conservare le abitudini del nostro paese e quindi mangiare ogni giorno la pasta, fare le visite quando qualcuno muore, mandare le partecipazioni di nozze  a tutti quelli che ci conoscono quando mia figlia si sposerà oppure abituarsi ai nuovi usi e costumi e diventare più lavativi, meno affettuosi, meno curiosi, mangiando baguette con patatine e salsine varie dalla mattina alla sera?”

 

Testimonianza di Massimo, 37 anni.

“ Sono cresciuto ascoltando Madonna e Depeche Mode e prima ancora, alla fine degli anni ’80 con l’italico Toto Cutugno che non mancava di inneggiare agli spaghetti e a un partigiano come presidente. Formidabili quegli anni. Alla fine degli anni ‘80 inglese, italiano e siciliano mi apparivano come sfaccettature di un’unica lingua madre. Insieme al classico panino con la mortadella e “piccidati” (uno dei dolci tipici valguarneresi) fatti freschi in casa a Natale non disdegnavo inoltre ingurgitare hamburger, hot dog, bibite in lattina e snack delle multinazionali americane, mentre le mie zie e le mie nonne mi dicevano: “Nan t mangiàr st porcari (sch’fèz), fan mal a panza” (Non mangiare queste schifezze, fanno male allo stomaco, alla tua salute). In tv e al cinema vedevo coetanei dell’altra parte del globo indossare le mie stesse scarpe, le mie stesse t-shirt e la stessa voglia di conoscere, divertirsi e sperimentare. Quindi mi resi conto che non ero così diverso dagli altri giovani che abitavano fuori da Valguarnera, così come invece mi era stato raccontato dai miei zii che tornavano da Torino o dalla Francia. E così cominciai con l’inter rail, i concerti,  i campeggi, gli ostelli della gioventù e le vacanze all’estero improvvisate. Il mondo mi appariva dunque come un unico e grande villaggio globale. Perché dunque non fare gli studi nella Capitale (Roma caput mundi), dalla vocazione universale?

La mia prima “emigrazione” comincia così. Nessun trauma, nessun timore dell’ignoto e perfetta integrazione con gruppi di coetanei simili che più simili non si può, a prescindere dal luogo di nascita e di domicilio fiscale. Bari, Roma,  Londra, Strasburgo e Barcellona. Stesso modo di comunicare, stessi gusti e stesse aspirazioni. Dal 1986 al 2006 mi sono mosso da una città all’altra e da un paese all’altro (Francia, Inghilterra, Italia Svezia, Spagna, Grecia e Germania) vuoi per completare gli studi e vuoi per fare nuove esperienze lavorative, crescendo dal punto di vista professionale e ovunque mi sono mosso, non ho mai incontrato difficoltà di integrazione, né pregiudizi nei miei confronti. Attualmente lavoro e vivo in Sicilia, a Palermo. Sono ritornato perché ho avuto un ottima offerta di lavoro. E inoltre mi sono sempre piaciuti il clima, l’arte e le bellezze naturali di questa regione. Ritengo che Palermo abbia tutte le caratteristiche per poter essere una delle più importanti città europee del mediterraneo. Ma se un giorno per necessità o per migliorare la vita affettiva, professionale ecc; ecc; dovessi di nuovo spostarmi che ci sarebbe di strano?”

 

Testimonianza di Francesco, 33 anni.

Io ho 33 anni e vivo a Melbourne dal 1999. Sono partito subito dopo la laurea, da solo, per fare una esperienza di vita nuova. Ho deciso di venire in Australia perché avevo qualche parente e perché l’ Australia mi affascinava da sempre, soprattutto i paesaggi, la natura in genere. Dopo qualche mese che ero qui, ho trovato un buon lavoro. Ho svolto per circa cinque anni analista di logistica , mentre adesso mi occupo di ingegneria strutturale in quanto sono laureato in ingegneria civile. Ovviamente al momento della partenza ero molto eccitato per l’avventura cui andavo incontro  ma allo stesso tempo avevo un po’ di paura, come dice un noto proverbio siciliano: Cu lassa a vècchia pà nova, mal s trova…Inizialmente non nascondo che ho avuto un pizzico di difficoltà ad abituarmi ad una nuova situazione: ci sono delle cose che non ti  saranno mai offerte da una terra straniera, come ce ne sono  altre che il tuo paese di origine non ti offre. Accontentarsi è la chiave. Infatti ora mi trovo molto bene. Mi sono anche sposato con una ragazza di origini italiane ma che è nata in Australia e ho una figlia stupenda di nome Amanda.”

 

Testimonianza di Claudio, 27 anni.

“Lasciare la propria terra non è mai stato facile per nessuno, specie per i contadini disacculturati del mezzogiorno che dal secolo scorso hanno affollato navi, treni e carovane alla ricerca dei propri sogni di ricchezza e stabilità. Oggi l'emigrante meridionale accelera invece un fenomeno tutto nuovo, figlio del progresso e della emancipazione antropologica; la fuga dei cervelli. Che sia all'estero o nel settentrione, la maggioranza dei diplomati e laureati del Sud Italia lascia, suo malgrado, le pacifiche cittadine per affrontare una vita caotica e stressante nell'immenso agglomerato urbano delle grandi città industrializzate del Nord. Io sono uno di questi. Vincitore di un concorso indetto dallo Stato per n ° 933 Allievi Agenti della Polizia di Stato, mi sono ritrovato dal 2001 post 11 settembre, con un posto di lavoro che mi garantiva, a soli 20 anni un’ indipendenza economica. La tentazione di sbagliare volutamente il test più importante ai fini dell'assunzione, devo dire che è venuta sia al sottoscritto che ai due miei compaesani presenti in sala ammissioni. Per quanto mi riguarda erano in gioco alcuni fattori, certamente contrastanti, che mi rendevano dubbioso; da una parte la sicurezza rappresentata da un posto di lavoro statale e dall'altra le profonde radici paesane fin troppo radicate, trasmesse dal piccolo contesto in cui ero vissuto. Alla fine vinse la voglia di rivalsa sulle malelingue, pronte a giurare sulla pessima figura di noi ragazzotti o sulla buona riuscita in nome di chissà quale politico. Sì, perché per il Sud e in generale l'intera nazione, non esiste meritocrazia bensì una sorta di gerarchia dettata dalle conoscenze più o meno influenti. Ciò però incappava con gli ideali di correttezza inculcatimi dalla famiglia e dal rispetto per il lavoro altrui. Vinsi il concorso e diventai Agente della Polizia di Stato con un voto dignitoso e, cosa più importante, frutto di propri mezzi. Quel mestiere mi avrebbe portato via dagli affetti più cari e, di conseguenza, sballottato da un capo all'altro della penisola. Lo scetticismo e la preoccupazione in questi casi sono certamente patrimonio del genoma siciliota o comunque dei giovani che costantemente affrontano per la prima volta la vita lavorativa. Qualche mese più tardi ero già parte integrante del sistema-lavoro; dapprima presso la Scuola Allievi Agenti di Foggia per un primo apprendimento dei rudimenti del mestiere, poi una breve parentesi nelle Questure di Enna e Catania. Passarono due anni e l'indipendenza economica rimodellava le mie ambizioni facendo cadere le ultime barriere. L'ultimo ostacolo da affrontare fu la Scuola Allievi Agenti di Vibo Valentia, in Calabria. Sei mesi di corso che avrebbero sicuramente generato in me quelle nuove sensazioni di legalità e giustizia. Furono mesi un po’ difficili, momenti di scoramento dovuti esclusivamente alla mancanza della mia amata Sicilia ma soprattutto dei miei familiari. Difficoltà che presto capii di poter riuscire a colmare grazie al telefono o meglio al cellulare che mi permetteva di rintracciare e di essere rintracciato 24 ore su 24, grazie alla facilità con cui si può colmare una lunga distanza oggi e cioè con l’aereo che chiunque ormai si può permettere evitando di mangiare due sere consecutive al pub o in pizzeria. Finito il corso fui dapprima assegnato alla Questura di Milano e poi alla Polizia Ferroviaria dello stesso capoluogo lombardo. "Un classico", pensai; "un siciliano in Lombardia". Tornò lo scetticismo, pur attenuato dalla convinzione di un ritorno, secondo i regolamenti ministeriali, nella mia terra di origine. Non sarà certamente un Palermo - Milano sola andata, mi ripromisi. Oggi è grazie al confronto evidente tra le mie radici meridionali con quelle giornaliere del nord a rendermi più ricco di idee. Tutta quella paura, quel timore che provavo prima di partire, presto passò. Mi sono trovato subito bene, a mio agio. Non avrei mai pensato di incontrare così tanti miei conterranei, ma la verità è che il nord, così com'è strutturato oggi, è frutto del duro sacrificio e del lavoro umile dei tanti emigranti che, prima di me, hanno lasciato le proprie terre. Invece la maggior parte dei miei conterranei vive in modo distratto e irriverente il mondo del lavoro e della occupazione; molti giovani preferiscono vivere di stenti, magari sostenuti come si può dai familiari, piuttosto che alzare la testa oltre il Mediterraneo e lo Ionio. Vivendo a contatto con un ‘altra realtà, per mia fortuna, una serie di fattori casuali mi hanno portato ad essere più aperto di mentalità e molto più propenso ad accettare quelli che sono i limiti della nostra cultura, cercando sempre di inculcare a chi mi sta accanto, i valori positivi della mia terra. Oggi più di ieri, credo che il mezzogiorno debba comprendere quale sarà in futuro il prezzo da pagare se, come purtroppo credo, si continuerà a dipendere dal più produttivo settentrione. Nello specifico, l'esperienza milanese mi ha condotto al discernimento e all'apertura mentale che le fitte nebbie dell'ozio paesano aveva celato”.

 

Testimonianza di Antonio, negoziante:

“Io ero sempre il primo a scuola. Talmente bravo a scuola che tutti quelli che mi conoscevano supplicavano mio padre di lasciarmi studiare ancora. Ma mio padre non ha voluto. Non aveva i soldi per comprare i quaderni. Io ho fatto la guerra. Ho lavorato per mio padre, sognando di aprire una drogheria.

Mio padre non ha voluto, dovevo coltivare la terra. Quindi, sono partito. Era il 12 ottobre 1946. In quel treno tutto rotto, sentivamo ‹Liège›, ‹Namur›, ‹Charleroi›..Non sapevamo nulla, se erano delle città o cosa altro? Eravamo tutti ammassati e quando siamo arrivati, c’era un camion, un uomo e una donna ci dissero di salire. Siamo arrivati a Marcinelle , avevamo molta fame, in quei giorni non avevamo mangiato niente. La sera, faceva molto freddo e ci siamo ritrovati a dormire su dei letti a tre piani in delle stanze con le mura molto umide. Io ho subito comprato un piccolo dizionario e un quaderno dove ho annotato tutte le espressioni in francese che sentivo di volta in volta e le ripetevo senza neanche capire il significato. I tedeschi… lavoravano con noi ma erano meglio che noi, perché quando si alzavano potevano farsi una doccia, noi no. Io non amavo la miniera. Un giorno, una grossa placca di carbone mi è caduta sulle mani, mi sono ferito alle dita. Ambulanza, Ospedale Ste - ThéRèse, il forte dolore, due medicazioni al giorno e così , congedo per malattia. Non volevo più scendere in miniera ma ho dovuto riprendere a lavorare, mi occupavo di due pozzi e faceva talmente caldo che dovevo gettare dell’acqua sulle rotaie. Dopo alcuni anni di sacrifici, con il mio compagno di lavoro D.M, siciliano come me, ci siamo impegnati per affittare una stanza in una delle vie principali. Dormivano nello stesso letto ma stavano meglio che alla Cantina. Nel 1954 ho coronato il sogno di aprire un negozio”.

 

Testimonianza di Lydia: l’ultima cantinière:

“Sono sempre stata ornata di collane e anelli, la messa in piega sempre fatta, dei bei vestiti colorati. Mi sono sempre occupata di cucina e sono stata l’ultima cantinière. Adesso ho ottantasei anni ben portati, credo, e una memoria infallibile. Dal 1953 al 1959, ho servito da mangiare a numerosi operai affamati. I miei genitori, fuggiti al fascismo nel 1929, si rifugiarono in Belgio. A quattordici anni, ho scoperto la Louvière. Quando sono arrivata era tutto sporco, tutto sembrava nero e pieno di polvere. Nel 1930, ho sposato Giuseppe Barilli, operaio nella già conosciuta fabbrica Boel. Abbiamo avuto cinque bambini. Dal 1941 al 1946, il tempo della guerra, siamo ritornati in Italia, abbiamo rifatto un biglietto di ritorno per il Belgio. Prima andammo ad abitare nelle baracche in legno situate dietro le “ Usines Boel “ dove mio marito lavorava. Il mio talento in cucina emerse subito tanto che il direttore della fabbrica mi propose il posto di cantinière. Io esitai inizialmente ad accettare l’incarico, ma una volta accettato, lo portai avanti con felicità. La vita era dura, ma non mi vengono in mente di quel periodo che i bei ricordi. Sveglia alle cinque del mattino e a letto verso mezzanotte, sette giorni su sette. Il ritmo era stancante. Facevo da mangiare per una settantina di operai. Non si sedevano tutti allo stesso tempo e questo aumentava la confusione. Servivo da mezzogiorno alle sei della sera. Per gli operai italiani, la pasta era un ritorno alle tradizioni, il solo profumo faceva ritornare indietro nel tempo. Gli uomini avevano diritto ad una razione giornaliera di 125 gr. di pasta, ma se avevano ancora fame, io gli riempivo ancora i piatti. Il menù variava spesso: minestrone, maccheroni, penne, bollito di carne, polpette al sugo e tante altre cose. Fino al 7 febbraio 1959, data in cui la Cantina chiude le porte, ignorai il significato della parola vacanze. Non ho mai preso un giorno di congedo. Ogni tanto andavo al cinema il lunedì . E’ tutto. Da quando sono andata in pensione non sono più tornata alla Cantina degli italiani. Ma mi prometto di ritornarci il giorno dei festeggiamenti per l’inaugurazione del museo e dell’ostello della gioventù. Non troneggerò più dietro ai fornelli ma al posto d’onore”.

 

 Testimonianza di Rosa Lombardo, portinaia:

“Non mi stancherò mai di dirlo: le donne degli emigranti hanno giocato un ruolo determinante nella vita dei loro uomini, provati da un lavoro spossante e una malattia che li spegneva poco a poco. Eravamo spesso sole e sconfortate, ma abbiamo sempre affrontato le difficoltà quotidiane e affrontato degnamente la cattiveria di alcuni. Pertanto non proviamo nessun rimpianto, nessuno. Nel 1948, ho lasciato la mia Sicilia e tutti gli affetti per raggiungere il mio sposo  e la sua misera vita, dove poi però venni accolta a braccia aperte dalla comunità belga. I nuovi vicini di casa mi invitavano regolarmente a bere una tazza di caffè a casa loro e mi davano delle piccole lezioni di francese. Quattro mesi dopo ci siamo trasferiti a Tamines ed ecco che iniziano i primi problemi di integrazione. Come la maggior parte dei minatori, mio marito ha rapidamente contratto la silicosi e fu costretto a lasciare il suo posto di lavoro in miniera. Per fare vivere la famiglia, sono dovuta andare a lavorare io e ho trovato un posto come portinaia in una scuola statale di Tamines. Ero la prima italiana a lavorare in un posto statale ed ero costantemente vittima della cattiveria dei miei colleghi che mi davano della mangiatrice di macaroni e mi accusavano spesso di rubare le tartine dei belgi. Ho dovuto lottare con tutte le mie forze per essere integrata, ma non fu per niente facile. Parallelamente a questa vita infernale, avevo una vita felice, quella con mio marito e i miei figli, anche se vivevamo in una casa senza elettricità , senza acqua e senza sanitari, eravamo felici. Una madre e sposa perfetta mi definivano gli amici, che mi preoccupavo del benessere dei miei figli e di mio marito. Quando mio marito lavorava ancora in miniera , io mi alzavo alla stessa ora per preparargli delle tartine di pane con la mortadella e il pasto di mezzogiorno. Quando la sera rientrava a casa, prima di servirgli la cena, gli riscaldavo una bella coppa di latte caldo per ristorarlo”.

 

Testimonianza di Silvio, minatore:

“Ero a Milano, in un antica caserma: la Commissione di medici belga era paragonabile alla Gestapo. Un uomo aveva una varice alla gamba, venne reimbarcato in Sicilia. Eravamo trattati come delle bestie. Eravamo seduti, tutti allineati e una infermiera con un ago e una siringa ci pungeva il braccio. Prima che lei arrivasse da me, io mi sono sentito male, sono caduto all’indietro. Mi hanno sdraiato su una barella, mi hanno prelevato il sangue comunque e mi hanno fatto una visita completa e dopo siamo comunque passati tutti nudi davanti alla Commissione. La maggior parte erano dichiarati inadatti per “niente”. Un mio compaesano è stato rifiutato per qualcosa al cuore. Dovevamo essere come il pesce: fresco. Si è presentato successivamente ed è stato preso. Vive ancora a Liegi. A Marcinelle invece, al nostro arrivo, gli Italiani arrivati prima di noi ci spiegavano tutto quello che ci sarebbe stato da fare, e che la mattina sarebbe arrivato un vecchio uomo con la barba e ci avrebbe fatto la sveglia sbattendo brutalmente un bastone sui letti. Il giorno dopo l’interprete ha domandato chi volesse lavorare e nessuno ha risposto. Allora il mio amico Domenico ed io, abbiamo alzato la mano e subito ci hanno augurato “bonne chance”. Ci hanno fatto entrare in una galleria a prendere tutto il carbone che un altro minatore ricavava con il martello e dovevamo gettarlo da un'altra parte. Per terra era tutto sporco, nero, fangoso, le nostre scarpe facevano “ Splash Splash” mentre camminavamo. Ci saremmo dovuti abituare. Quando siamo rientrati, io e  Domenico, abbiamo raccontato ai nostri compagni come avevamo passato la giornata nei minimi dettagli, per tutta la notte. Guadagnavo fra i 220 e i 230 franchi al giorno e un giorno l’ingegnere, che parlava un poco italiano, mi chiama e mi dice: Un giovane forte come te….se riuscissi  a scendere a 4 metri..potrei darti 20 franchi di più al giorno..io rispondevo che per me era difficile e lui mi incitava a provare..ma la cosa bella era che diceva così a tutti gli italiani, e così siamo passati a 4 metri, poi a 5, 6, 7…”.

 

Testimonianza di Giovanni, minatore:

“La cantina è stata la sola alternativa trovata, assieme alle baracche, per accogliere le migliaia di minatori italiani che sbarcavano ogni settimana. Fu creata nel 1947, la “Cantina”, e ospitò gli emigrati italiani partiti per lavorare nel campo siderurgico della Louvière.Originari di Palermo, Catania, Agrigento ma anche di Bergamo, Verona o Reggio Emilia, scendevamo dal treno a La Louvière. Giovani e forti ( in media 20 anni), andavamo a lavorare da Boel, una delle più importanti e antiche industrie di Fonderia e Acciaieria  del Belgio, e andavamo ad alloggiare alla Cantine des Italiens. Il primo ad aver usufruito della Cantina, ha firmato il Registro degli Stranieri il 24 aprile 1947. Fino al 1959, furono 547 gli iscritti. Io ero uno tra quelli. La Cantina era un luogo di prima accoglienza, di transito, in cui il confort era rudimentale. Si alloggiava in otto per camera, il materasso era duro e lo spazio molto limitato. La valigia, infilata sotto al letto, serviva da guardaroba. La Cantina serviva anche da luogo di incontro, da salotto,dove si discuteva per ore ed ore delle vicende, spesso delle disgrazie della comunità italiana. Fortunatamente, la cucina della Cantina era buona e poi, dopo una faticosa giornata di lavoro, anche lo zinco sarebbe stato buono. Il 9 febbraio 1959, Domenico Polesal sarà l’ultimo a lasciare la camera. Una pagina si ferma. Per 26 anni la Cantina degli Italiani viene lasciata all’abbandono. Nel 1977, grazie al contributo del Professore Jean- Pierre Gaillez, la Cantina è stata ristrutturata e i luoghi sono stati suddivisi e adibiti a museo, centro di ristorazione e ostello della gioventù. Nel 1996 è stata organizzata una esposizione “ La Cantina dal 1946 al 1996 “, in cui la Cantina si è fatta accarezzare per la prima volta dallo sguardo dei visitatori. E inoltre una incantevole mostra fotografica con le immagini dei 547 Italiani che hanno soggiornato alla Cantina”.

(Dalla tesi di laurea di Monique Maria Selva “Vivere da stranieri. Testimonianze di emigranti valguarneresi”. Catania, Facoltà di Scienze Politiche. Corso di laurea in Relazioni Pubbliche. Anno accademico 2006/2007)

 


 


[1]Corbetta P., Metodologia e tecniche della ricerca sociale, Il Mulino, Bologna, 1999, pag. 423.

[2]Ibidem.

[3]Kahn R. L., Cannel C. F., La dinamica dell'intervista, Marsilio, Venezia, 1968.

[4]Corbetta P., Metodologia e tecniche della ricerca sociale, Il Mulino, Bologna, 1999, pag. 427.

[5] Nel rispetto dei canoni della ricerca qualitativa, i nomi riportati sono nomi di fantasia.

 

[6]La trascrizione dei termini e delle espressioni del dialetto valguarnerese, in questo come negli altri casi, è curata da Barnabà E.,  nato a Valguarnera nel 1944. Di dialetto ha scritto sul sito www.valguarnera.com, in particolare nelle rubriche Lezioni di carrapipano e Un proverbio alla settimana (esempi di trascrizione). Tra i libri pubblicati, un libro che parla della storia valguarnerese è I Fasci siciliani a Valguarnera.

[7]Mazzara B. M., Stereotipi e pregiudizi, Il Mulino, Bologna, 1997.

[8]Perrotta R., Cornici, specchi e maschere. Interazionismo simbolico e comunicazione, Edizioni CLUEB, Bologna, 2005,  pag 103.

[9]Perrotta R., Cornici, specchi e maschere. Interazionismo simbolico e comunicazione, Edizioni CLUEB, Bologna, 2005, pag 49.

[10]Perrotta R., Cornici, specchi e maschere. Interazionismo simbolico e comunicazione, Edizioni CLUEB, Bologna, 2005, pag. 110.

[11]Ibidem.

[12]“Qui c’era già mio fratello che mi diceva che tutto era bellissimo e per questo ho deciso di venire in Australia”.

[13]Fonte: members.xoom.virgilio.it/serverzone/sintesi_turismo.doc

[14]Il concetto di carriera “fa riferimento al modificarsi delle caratteristiche ricondotte a se stessi in conseguenza del passaggio da alcuni stati di consapevolezza ad altri”,  Perrotta R., Op.cit., pag.153.

[15]Vegliante J. C., Gli Italiani all’estero2, Passage des italiens, La Sorbonne Nouvelle, Paris, 1988.

[16]Tratto da: Supplément gratuit à La Nouvelle Gazette/La Province, Le Journal de Charleroi et le Peuple, du mardi 18 juin 1996, Editeur Michel Fromont, Charleroi, 1996.

 

[17]Tratto da: Supplément gratuit à La Nouvelle Gazette/La Province, Le Journal de Charleroi et le Peuple, du mardi 18 juin 1996, Editeur Michel Fromont, Charleroi, 1996.

 

 [18]Perrotta R., Op. cit., pag. 151.

[19]Bauman Z., Dentro la globalizzazione, le conseguenze sulle persone, Laterza, Bari, 1999.

[20]Mc Luhan M., Understanding Media: The Extensions of Man, New American Library, New York, 1964 (trad. it. di E. Capriolo, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1999.

[21]Cassano F., Il pensiero meridiano, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998.

 

[22]Le testimonianze sono state raccolte utilizzando internet, sul sito: www.valguarnera.com, nella sezione dedicata al forum.

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