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VALGUARNERA A FINE OTTOCENTO E LA RIVOLTA POPOLARE DEL 93

  La stratificazione sociale in un paese dell’interno

Assente l’aristocrazia, la classe dominante di un paese dell’interno della Sicilia sul finire dell’Ottocento è composta da un ristretto numero di ricchi proprietari terrieri e di grossi gabelloti. Si tratta, come è ben noto, di una borghesia campagnola che già nel Settecento aveva cominciato a contendere il possesso della proprietà terriera ad un’aristocrazia economicamente vacillante che dal bisogno di denaro liquido era stata spinta a svendere le proprie terre.

 1. La borghesia terriera dopo l’abolizione della feudalità

Alla fine dell’Ottocento, il processo di formazione della proprietà borghese era giunto a compimento e le vie di questa formazione erano state l’enfiteusi (cessione per lungo tempo o in perpetuo), la gabella, il commercio del grano, l’usura, il dominio dei municipi, ecc. Con tali mezzi e a spese, oltre che della proprietà feudale, dei beni demaniali ed ecclesiastici ed a opera di quel cannibalismo borghese che, dall’Unità in poi, faceva diminuire il numero dei proprietari, erano andati accumulandosi nelle mani di poche famiglie consistenti patrimoni.

E’ risaputo che questa borghesia di nuova formazione, oltre alla terra, dai “gattopardi” che l’avevano preceduta, aveva ereditato anche la mentalità che la spingeva spesso a esercitare con durezza e disprezzo il suo dominio sulle classi subalterne. Essendo la posizione sociale e il prestigio personale legati al possesso della terra, il nuovo ceto dei «civili» s’industria, come nei romanzi di Giovanni Verga, ad accumulare «roba» per raggiungere il potere, il senso di sicurezza e di stabilità che la possessione della terra gli dava.

Le sue attività più redditizie permangono quelle parassitarie del periodo feudale. Piuttosto che investendo i suoi capitali per operare trasformazioni produttive, il «civile» cerca di raggiungere il suo scopo smungendo gli affittuari e i braccianti, sottraendo piuttosto che creando, vivendo di rendita più che di profitto. Si tratta, insomma, di una borghesia che, mancando oltre che di spirito di iniziativa anche di larghezza di idee, è incapace di farsi portatrice degli elementi progressivi propri della borghesia capitalistica di altri paesi.

Un funzionario statale che in quegli anni operava in Sicilia, Giuseppe Alongi, ci dà, in un’indagine sociologica, un’immediata descrizione di tale ceto sul finire dell’Ottocento in un comune dell’interno dell’isola:

        «I proprietari terrieri sono persone influentissime, sfruttano tutte le cariche amministrative, hanno vaste clientele di elettori, per cui si attirano necessariamente i riguardi del deputato, che con loro forma esclusivamente la classe politica. Il gabelloto ha pretese baronali; quindi vive isolato da tutte le altre classi sociali, che disprezza; è quasi sempre ignorante, presuntuoso, dispotico, violento. E’ convinto che i funzionari del Governo siano destinati esclusivamente alla soddisfazione dei suoi bisogni e delle sue vendettuzze».

 E, dando una pittoresca immagine del rientro dalla campagna di questi proprietari, aggiunge:

«Rammento sempre di aver veduto molti di questi signori di montagna tornare dal feudo seguiti da una mezza dozzina di campieri, tutti a cavallo, con stivali, scapolari e fucili sulle ginocchia, entrare al gran galoppo in paese come una banda armata»

 Il vertice della stratificazione sociale del comune dell’interno da noi preso in considerazione (comune che contava circa 13.000 abitanti ed in cui gli analfabeti superavano il 90%)

Il maestro profeta e i suoi alunni  è composto da «signori di paese», a cui vedremo fino a qual punto possano essere applicati i giudizi dell’Alongi. Alcuni documenti dell’epoca sono di prezioso aiuto. La polizia, per esempio, ci fornisce una serie di «ritratti» di personaggi appartenenti alla classe dominante di quel paese negli anni Novanta, il periodo da noi preso in considerazione. Si tratta di rapporti della pubblica sicurezza relativi alle persone più influenti del paese. La prima «scheda» è dedicata al sindaco del comune:

“Prato Gaetano di Antonino, possidente, da Valguarnera. È il sindaco del Comune, e quantunque fornito di laurea in giurisprudenza non ha una cultura profonda. Non esercita la professione perché è molto ricco, il più ricco del paese [..]”

 Se il lavoro fisico viene generalmente disprezzato in quanto inferiore, in questo caso il possidente vuole essere libero da ogni legame con il lavoro, sia pure quello di una professione liberale quale l’avvocatura. Di idee limpidamente reazionarie, il sindaco di Valguarnera di quegli anni gode del vasto potere che gli deriva dal grosso patrimonio terriero. Egli, potendo concedere o negare una mezzadria o una giornata di lavoro, è l’arbitro della vita di masse di contadini. Inoltre, non diversamente dall’antico feudatario, la sua ricchezza gli consente di esercitare una politica paternalistica e di cercare di dare di sé un’immagine contrassegnata dalla generosità:

«[...] Di condotta illibata, molto munifico verso i poveri, ha principi puramente conservatori e vorrebbe financo la Casa Savoia governare senza Parlamento. Ha moltissima influenza sulle masse che cerca sempre guidare al rispetto delle leggi ed al mantenimento dell’ordine; questa sua influenza però non la può svolgere in altri comuni della Provincia».

 Questo è quanto del sindaco Prato scriveva la polizia. Di diverso avviso, in­vece, era il deputato socialista De Felice che volle effettuare un’inchiesta sui fatti di Valguarnera. Colpito dall’“odio invincibile” che il Prato ispirava alla popolazione, interrogò a tale soggetto i contadini valguarneresi imprigionati a Caltanissetta, un consigliere provinciale ed “alcuni borghesi meno sospetti di favorire la causa dei cosiddetti ribelli”.

“Dal complesso delle risposte”, scrive De Felice, “mi risulta che il sig. Prato, sindaco di Valguarnera, un uomo sulla cinquantina, è piuttosto caparbio, astioso, superbo, per quanto i miei interrogati non lo credano del tutto cattivo. Come sindaco è qualche volta ingiusto: sgrava di tasse i suoi fidati, aggrava gli altri, specialmente lavoratori. Come uomo è poco tenero dei suoi contadini; li tratta peggio degli altri e in rapporto al salario e in rapporto ai viveri. Possedendo molte terre, quindi, è molto odiato”.

Per i contadini interrogati, il Prato era «più nero del diavolo»:

 «non solo per la partigianeria che dimostrava nell’amministrazione del comune, nell’imposizione delle tasse, nelle sue relazioni con gli amministrati; ma anche perché trattava male i contadini, non aveva una sola parola di commiserazione per loro, li guardava con occhio di disprezzo. Quando doveva dare loro del frumento, vi univa terra ed altre porcherie: tutto poi pesava per frumento buono! Il vino che era tenuto a dare durante il lavoro era guasto, anzi aceto addirittura. E poi dava 2/3 di acqua, un terzo di vino. E lo dava per vino buono».

 Quanto viene riferito al deputato socialista, nel vivo della polemica contro il sindaco, tende a fare emergere l’immagine di un padrone «cattivo», a spiegare o a giustificare l’accanimento con cui il popolo aveva devastato pochi giorni prima il suo palazzo. L’arroganza, la partigianeria, il disprezzo per i lavoratori sono, però, tratti estensibili a un’intera classe cui andavano «baciolemani» non sempre metaforici e il cui concetto di libertà non era in molti casi dissimile da quello del proprietario regalpetrese di cui parla Leonardo Sciascia: la libertà di prendere a calci i contadini.

Un’altra delle «schede» compilate dalla polizia è dedicata a don Filippo Prato, un personaggio che, pur essendo imparentato con il precedente, costituisce per così dire una variante cronologicamente anteriore della figura del proprietario terriero. La persona in questione, pur essendo assurta alle massime posizioni di ricchezza e di potere (era già stato sindaco del comune e, in un certo senso, continuava ancora a esserlo), esercita una precisa funzione nel sistema subculturale popolare. La sua ascesa sociale, cioè, si è affermata nel campo economico e non ancora in quello ideologico-culturale. In questo senso assimilabile al gabelloto, figura di borghese in ascesa che non ha tagliato i ponti con la classe sociale di provenienza, esercitando direttamente su di essa l’autorità che gli viene dall’essere spesso un «uomo di rispetto» e sapendo difendere la sua superiorità gerarchica anche con «mezzi persuasivi», don Filippo Prato incute rispetto ai ceti popolari grazie al suo «buon senso» e al «carattere conciliante» che gli consente di regolare le questioni d’onore, di appianare le liti e i contrasti d’affari senza ricorrere — è lecito supporre — alle autorità statali.

 

Scheda informativa su don Filippo Prato«Prato Filippo fu Giuseppe, possidente da Valguarnera. E assessore comunale. ma non ha nessuna cultura letteraria. Invece è fornito di molto buon senso ed ha idee chiare e precise. È di ottima condotta morale e politica e per la sua splendida posizione finanziaria ha moltissima influenza sulle masse, influenza che gli proviene dal suo carattere conciliante ed in moltissimi casi riesce a comporre i privati dissidi tra contadini e zolfatai. Ciononostante anche la sua casa venne incendiata e saccheggiata il 25 dicembre 1893. Non può svolgere la sua influenza in altro comuni della Provincia.  È conservatore perfetto».

Una terza scheda descrive il barone Giuseppe Boscarini, consigliere comunale legato al gruppo di opposizione municipale. Da rilevare l’attaccamento al  titolo nobiliare (di non limpida acquisizione secondo la polizia), tipico della borghesia terriera, che è un ulteriore indizio dei vincoli ideologici che la legavano all’aristocrazia e quindi della precarietà di una autonoma ideologia di classe.

 

“Barone Giuseppe Boscarini, da Valguarnera. Non è un nobile nel vero senso della parola perché il titolo di barone gli provenne da un feudo che comprò in provincia di Palermo Si può dire un ricco possidente.  E’ di cultura piuttosto limitata anzichenò […]”

Il rapporto prosegue mettendo in evidenza il connubio tra la borghesia terriera e i “malfattori” che infestavano le campagne. Questi fenomeni erano così diffusi che, davanti all’accusa di «manutengolismo», i proprietari si difendevano facendo osservare che “nelle condizioni in cui ormai si viveva nelle campagne, specie nelle zone interne dell’isola, non i proprietari proteggevano i “malfattori”, ma costoro proteggevano quelli».

 

2. Mafia, brigantaggio e latifondo

E’ stato sostenuto che alla miseria il contadino siciliano poteva reagire con la rassegnazione o con la ribellione; se sceglieva quest’ultima via, le forme classiche di ribellione erano il brigantaggio e il comportamento mafioso. Una terza soluzione cominciava a essere l’adesione alle organizzazioni socialiste e in questo senso De Felice attribuiva ai Fasci una funzione d’antidoto alla delinquenza. Certo è, per dirla con Emanuele Macaluso, che la mafia era “parte integrante e integrata del sistema di potere locale; strumento dei ceti dirigenti per il loro dominio di classe”, come vedremo continuando a leggere la scheda del Boscarini che, proteggendo i latitanti, finisce per esserne protetto a sua volta. Tutto questo gli consente di accrescere il suo potere sui contadini e il suo prestigio sui mafiosi:

 

“[…] ha il difetto della grande maggioranza dei proprietari dell’isola, cioè quello di non mettere mai le autorità in condizione di purgare le campagne dai malfattori, dappoiché risulta che il latitante Bruno Michele passò gran tempo nella sua fattoria in ex feudo Conazzo. Anche l’altro latitante Muratore Antonio bazzicò parecchio tempo in detto ex feudo. Al Sig. Barone quando gli si domandavano notizie dei cennati latitanti rispondeva sempre di non saper niente. Per questa sua omertà il Boscarini ha molto ascendente sulle masse dei contadini e dei mafiosi; la sua influenza però non la può svolgere in altri paesi della Provincia. Egli professa principi costituzionali”.

 Il ceto medio che, nella stratificazione sociale di un paese siciliano dell’epoca viene subito dopo la borghesia terriera di cui abbiamo parlato, si suddivide in due strati, quello dei «cappeddi» e quello che potremmo chiamare produttivo. Un discorso a parte va fatto per il clero.

 

3. Due «cappeddi»

 I «cappeddi», che con la borghesia terriera formava quello che veniva chiamato il ceto dei «civili» o dei «galantuomini», erano medici, farmacisti, avvocati, maestri, impiegati comunali e delle amministrazioni delle miniere, proprietari terrieri non coltivatori, gabelloti ecc. Ai “galantuomini” era riservato il circolo o casino dei “civili”. È al di là delle dorate porte di questo circolo, rigorosamente chiuso agli altri ceti sociali, che i «grandi di Spagna disuso» (come trent’anni dopo li chiamerà Fracesco Lanza in una sferzante pagina di satira di costume dedicata al circolo dei «civili» di Valguarnera) trascorrono le loro giornate, giocando a carte, parlando di affari, di donne o di politica. È lì, prima che in consiglio comunale, che vengono prese le decisioni amministrative; è lì che il delegato di pubblica sicurezza discute, come vedremo, dei provvedimenti di polizia da attuare. È su di esso, identificato come simbolo della borghesia, che si sfogherà l’odio di classe della popolazione il 25 dicembre 1893.

 Le schede della pubblica sicurezza ci offrono due rappresentanti del ceto dei “cappeddi”. La prima è dedicata al maestro Lanza, uomo dalla spiccata personalità, ma dalla grama condizione finanziaria:

 

“Lanza Francesco Paolo fu Michele, insegnante elementare da Valguarnera. Quantunque occupa il modesto posto d’insegnante elementare, la sua cultura è molto superiore al grado che occupa. La sua condizione finanziaria non è tanto florida, purnondimeno ha molto ascendente sulle masse che vedono in lui un uomo superiore relativamente a Valguarnera. In forza di questo ascendente Egli il 25 Dicembre 1893 ebbe il coraggio di arringare la folla tumultuante per indurla alla calma. Sventuratamente il veleno del socialismo si era inoculato nelle vene dei contadini e degli operai e le sue parole non furono ascoltate, e si deve alla popolarità che gode se in quel frangente non ebbe fatto del male. È di principi conservatore […]”

 L’altro rapporto è dedicato al dottor Manganaro che, al contrario del sindaco Prato, è dalle condizioni finanziarie costretto a esercitare la sua professione di medico:

 

«Manganaro dottor Vincenzo fu Giuseppe da Valguarnera. È discreto medico di piccolo comune, ed esercita la professione perché la sua condizione finanziaria non è tanto florida. Di carattere mite, docile, ma per contrario è degli avversari più accaniti alla attuale amministrazione comunale [...]. Nella sua qualità di medico a contatto di tutte le classi sociali gode di certa influenza nelle masse, ma la sua influenza non può svolgerla in altri comuni della Provincia. È di principi monarchico-costituzionale».

 I ranghi meno elevati del ceto medio sono formati dai piccoli proprietari coltivatori diretti, detti «massari» o «borgesi», dagli appaltatori, negozianti, sensali, cottimisti di miniere ecc.

 

4. Il clero: tra blocco agrario e questione contadina

 Del clero, quasi sempre di origine contadina, ma collocabile accanto al ceto dei «civili», l’Alongi dice:

 

«Il clero è sempre numeroso, spesso troppo numeroso, in rapporto ai bisogni religiosi della popolazione. Provenienti per lo più dal ceto dei borgesi, con quella larva di cultura ad “usum delphini” che si dà nei seminari clericali, pervertiti dall’orgoglio soddisfatto di essere usciti dalla massa dei contadini, i preti siciliani si attaccano come pedagoghi, contabili e consiglieri al ceto dei galantuomini, ne scimmiottano il contegno da gran signori, il disprezzo delle idee nuove, il rimpianto del tempo che fu, predicando contro il governo protestante ed usurpatore. Il clero siciliano (salve sempre le eccezioni lodevoli) è fanatico quanto ignorante, ed invece di farsi difensore e consigliere del proletariato, da cui è uscito, se ne fa tirannello».

 Le cose non erano, però, così semplici. Di fronte alle agitazioni contadine dell’autunno del 1893, una parte del clero aveva assunto una posizione di notevole apertura. Sulla scia delle direttive pastorali del vescovo di Caltanissetta, le «lodevoli eccezioni», per dirla con l’Alongi, non mancavano, come nel caso dell’economo della Matrice di Pietraperzia che — stando alle parole del sindaco di quel paese — additava dal pulpito i ricchi «all’odio della plebe». Verosimilmente quel sacerdote, seguendo le indicazioni del vescovo nisseno, aveva reclamato un maggior rispetto per i lavoratori e auspicato contratti agrari più equi.

Questa nuova sensibilità — stimolata anche dall’esigenza di affermare una posizione concorrenziale nei confronti dell’azione che andavano svolgendo i Fasci, nei quali il mondo cattolico siciliano non vedeva che plebi illuse da ree dottrine e da istigatori malvagi — era però lungi dall’essere generalizzata. Il grosso del clero aveva altre posizioni. Continuava, come rilevava l’Alongi, a esser viva la vecchia polemica contro il «governo usurpatore» e il liberalismo della classe politica postunitaria, ma la funzione che esso svolgeva lo integrava nella sostanza al blocco sociale egemonizzato dalla grossa borghesia terriera. A Valguarnera, per esempio, un sacerdote era membro dell’amministrazione Prato.

In quegli anni, comunque, cominciava ad emergere quell’orientamento che porterà il clero a farsi carico della tematica contadina, ad effettuare quel “cambiamento di rotta” con il quale “la Chiesa rientra nella storia laica e civile”; cui non furono estranee né l’esplosione dei Fasci, né la crisi agraria di fine secolo, come ha notato il De Rosa. Le prime casse rurali cattoliche (tra cui quelle di Agira e Nicosia) sorgeranno infatti nel 1895 e agli inizi del Novecento ne verranno fuori un po’ dappertutto, nella Sicilia interna. A Valguarnera, la Società rurale democratica cristiana sarà fondata il 14 giugno 1900 con lo scopo di dare in gabella terre ai soci e di concedere loro prestiti agevolati in denaro e in natura. L’associazione, nata all’insegna dell’interclassismo cattolico, raggrupperà un buon numero di «massari» e svolgerà una funzione protettiva nei confronti di questo ceto.

All’epoca dei Fasci, comunque, il cambiamento di rotta non ha ancora avuto luogo. Il movimento cattolico languisce. Nella diocesi di Piazza Armerina “nulla si è fatto” e in quella di Nicosia «di movimento cattolico non c’é neppure ombra», costata l’inviato dell’Opera dei congressi. L’influenza esercitata dalla Chiesa sulle masse lavoratrici è decrescente e, per quanto riguarda il proletariato delle miniere, si può osservare un processo di scristianizzazione in atto.

 

5. La base della piramide: i «birritti».

          Fra  ceto medio e proletariato, nell’abbozzo di stratificazione sociale che andiamo elaborando, si collocano i “mastri”, i “capomastri” delle miniere, i campieri, i mezzadri e gli artigiani in genere, comunemente chiamati ope­rai. E infine il proletariato, la grande maggioranza della popolazione. Questa classe sociale è composta dagli zolfatai, dai braccianti e dai mezzadri poveri. Assieme a essi i caprai e i pecorai. Molto spesso, all’interno del proletariato, è impossibile fare ulteriori suddivisioni, data l’intercambiabilità del tipo di lavoro svolto dagli strati più poveri della popolazione: il proletariato, tranne alcune categorie più specializzate come quella dei picconieri, può lavorare tanto in campagna quanto in miniera. Ciò è dovuto, oltre che al basso livello tecnologico dei due settori produttivi, alle crisi che colpivano frequentemente i due comparti e che spingevano a cercare lavoro ora nelle zolfare, ora nelle campagne.

 

I «birritti», come in opposizione ai «cappeddi» venivano chiamati i ceti collocati nel basso della stratificazione sociale, non avevano in grande maggioranza diritto al voto. La legge elettorale del 1890 aveva esteso questo diritto ad appena il 7 per cento della popolazione italiana, escludendone i non abbienti, gli illetterati e le donne. A Valguarnera la lista elettorale del 1890 comprendeva 717 elettori. L’alta incidenza delle categorie escluse dal voto vi abbassava la percentuale a circa il 5,5 per cento della popolazione.

La piramide della stratificazione sociale 

Tale è, grosso modo, la piramide della stratificazione sociale di un paese dell’interno della Sicilia alla fine dell’Ottocento. La schematicità del grafico impone, però, alcune precisazioni relative all’organizzazione del lavoro nelle campagne, dove si coltiva quasi esclusivamente il frumento con il sistema della rotazione triennale.

 

6. L ‘organizzazione del lavoro nelle campagne

  A Valguarnera il grosso proprietario era talvolta anche gabelloto, figura che — come si sa — fu un importante elemento della penetrazione del capitalismo nelle campagne. Esso infatti, disponendo di capitali, prendeva in gabella (affitto di interi latifondi con pagamento in moneta) i feudi dei proprietari assenteisti. I fondi presi in fitto, così come quelli dei grossi e medi proprietari, venivano suddivisi in piccoli appezzamenti e concessi «a terraggio» o a mezzadria ai contadini. Come, assieme a molti altri, diceva l’Alongi, «il nome di mezzadria se non è una crudele ironia è certo un’insigne menzogna» poiché la divisione del prodotto poteva essere fatta fino a «tre parti contro una parte» a favore del padrone. Nel caso in cui il prodotto veniva ripartito in parti uguali, il contadino doveva restituire la semenza con l’“addito” (tasso di interesse) di 2 o 4 tumuli per salma di grano, il «terriggiuolo» variante tra una e due salme di grano per salma di terra, l’imposta di ricchezza mobile e tutta una lunga serie di diritti angarici (estimo, sfrido, assicurazione, cuccia ecc.) varianti attorno al tumulo di frumento per ogni salma di terra concessa.

 

Nonostante questo, i contadini preferivano il contratto di mezzadria alla concessione a terratico, Contadino sull'aia consistente in un compenso fisso e stabilito in una entità di grano variante dalle 2 alle 6 salme, a seconda della qualità della terra e della forza contrattuale dei contraenti, per ogni salma di terra presa in fitto. Tale preferenza evidenziava le condizioni di debolezza contrattuale e di povertà del contadino. Il terratico, rispetto alla mezzadria, rappresenta infatti una forma di contratto più avanzata sul terreno dei rapporti capitalistici, ma supponeva un minimo di autonomia economica da parte del contadino, che gli permettesse di far fronte agli anni di cattivo raccolto. Le “malannate”, disastrose nel caso di contratto a mezzadria, divenivano mortali caso del «terraggio», dovendo — in ogni caso — il contadino versare la quota di affitto stabilita in precedenza; infatti, “essendo di solito il tasso di grano del concedente appena tollerabile, dati anche i pochi mezzi di lavoro del colono, nelle annate di buon raccolto, bastava solo un anno di cattivo raccolto perché il terratichiere, obbligato per contratto a corrispondere la misura stabilita, si trovasse nelle condizioni di essere costretto a vendere la mu­la e la casupola” (S. F. Romano).

 

Il più delle volte, poi, oltre che per l’anticipazione della semenza, il contadino era costretto a ricorrere al proprietario per il «soccorso» in grano che gli dava modo di vivere assieme alla famiglia fino al prossimo raccolto. Queste anticipazioni rappresentavano delle forme d’usura che non mancavano di indignare gli studiosi dell’epoca. Il Cavalieri, per esempio, denunciava — oltre alle «angherie e i frutti usurai» connessi in tali consuetudini — «la rapacità spiegata nei soccorsi che, mentre son dati con qualità scadentissime, si vogliono restituiti con qualità ottime»; proprio come i contadini valguarneresi denunciavano nel caso del sindaco Prato. I «soccorsi», in sostanza contribuivano a favorire l’accentramento di un ingente potere nelle mani di pochi borghesi, ponendo il contadino in un rapporto di subordinazione e di domi­nio diretto dal momento che «costretto ad accettare che la restituzione di questo soccorso avvenisse ad un tasso elevato, il colono si trovava da un lato alla dipendenza diretta e personale del proprietario, e dall’altro impigliato in una catena di debiti insolvibili data la limitatezza dei suoi mezzi».

        Il possesso dei mezzi di produzione determinava delle ulteriori suddivisioni tra contadini o «villani», come venivano chiamati gli strati di popolazione legati direttamente al processo di produzione delle campagne. Chi possedeva due muli e un aratro poteva prendere a mezzadria delle più o meno vaste estensioni di terra, ancora maggiori nel caso in cui si disponesse della possibilità di assumere dei braccianti nei periodi richiesti dalla produzione. Chi non possedeva altro che le proprie braccia e una zappa non poteva pren­dere in affitto che un appezzamento di 2 o 3 salme.

I piccoli proprietari, per la gran parte nzuarii (cioè censualisti, beneficiari di un contratto di enfiteusi), lavoravano direttamente, con l’ausilio di garzoni o di braccianti, sia la terra di loro proprietà sia, come spesso accadeva, quella presa in affitto a mezzadria. I mezzadri poveri, a lo­ro volta, spesso prestavano la loro opera come braccianti a giornata («jurnatara»).

I lavoratori della terra, che costituivano la maggioranza della popolazione, rappresentavano quindi un vasto strato fino al proletariato. Tali suddivisioni evidenziavano l’arretratezza dell’organizzazione del lavoro nelle campagne e il ruolo della rendita parassitaria nei rapporti di proprietà e di produzione. Questa arretratezza, che pesava duramente sui contadini, venne individuata nel noto congresso organizzato dai Fasci a Corleone le cui rivendicazioni «avevano un contenuto democratico e miravano in sostanza a liquidare i residui feudali» dalla campagna siciliana. Mediante i patti agrari strappati con gli scioperi avvenuti nella Sicilia occidentale nell’autunno del ‘93 i contadini ottenevano l’abolizione del «terraggio», il miglioramento dei contratti di mezzadria e imponevano il principio della contrattazione collettiva.

 

7.      Le miniere di zolfo tra crisi e tensione

          Nel 1893 l’industria mineraria siciliana (della quale la zona circostante Valguarnera costituiva circa il 10% dell’intera produzione) versava in piena crisi; la sovrapproduzione e la concorrenza dello zolfo di pirite avevano nel giro di pochi anni fatto vistosamente calare il prezzo del minerale. “In questi ultimi tempi – scriveva Napoleone Colajanni – picconieri e carusi hanno cominciato a lavorare di più per rimediare al diminuito prezzo dello zolfo. Con ciò la produzione aumenta e i prezzi continuano a ribassare per opera fatale degli stessi lavoratori che sono le prime vittime di questo tristissimo circolo vizioso!”.

 

Carusi all’ingresso di una zolfara (litografia di E. Ximenes)Il numero degli scioperi aumentò vistosamente. Gli obiettivi era quelli dell’abolizione nel cottimo e del ripristino della vecchia unità di misura (la “regola”) che era stata modificata a detrimento dei lavoratori. La crisi, tuttavia, colpisce tutto il mondo delle miniere e non soltanto gli zolfatai. Si veda questa lettera-petizione inviata a settembre al prefetto di Caltanissetta da un centinaio di valguarneresi che lavoravano alla miniera Gallizzi:

 

“I qui sottoscritti disgraziati domandano e umiliano alla S.V. Ill.a quando segue. Fin da quattro anni addietro che i ricorrenti lavorano sotto la ditta G. Labretoigne (francese) amministrato costui dal vero birbante V. Labiso da Terranova di Sicilia i quali si sono cooperati tanto a far arrivare i poveri lavoranti alla disposizione di abbandonare la rispettive mogli e figli nel laberinto dell’inferno che é la fame, e perdersi per sempre rinunziando alla libertà ed ai diritti civili […]”

   

Documento eloquente, dominato dalla disperazione e dallo spettro dell’atto inconsulto.

 

Gaetano IngrassiaMancava nella Valguarnera di quegli anni un’organizzazione cui  zolfatai e contadini potessero fare riferimento. I tentativi di costituirvi una sezione del Fasci (che fungevano contemporaneamente da organizzazione politica e sindacale) effettuati dal barbiere Gaetano Ingrassia falliscono nel giugno del 1893 a causa delle pressioni esercitate congiuntamente su di lui dai borghesi e dalla polizia.

 

Restano quei focolai di agitazione tenuti vivi da Michelangelo Di Dio, detto “Cottonaro” e da Gaetano Profeta, detto “Il Cativo”. “Venne un momento – fu affermato – in cui i contadini (e i minatori, ndr) si guardarono negli occhi e compresero che quel movimento schiacciante della crisi non poteva essere fermato senza una resistenza collettiva. Bisognava non lasciarsi mangiare uno ad uno, e divorandosi a vicenda. Tutti insieme potevano imporre condizioni più umane. E fecero i Fasci”. A Valguarnera non si riuscì a creare un Fascio dei lavoratori, ma, come affermerà il Magno, “il veleno del socialismo si era inoculato nelle vene dei contadini e degli operai”.

   

La rivolta

 

Gaetano Profeta, detto "U Cativu" (Il vedovo)E ancora vivo il ricordo del fatto che nella mattina del 25 dicembre 1893 sia giunto a Valguarnera, travestito da frate, un emissario di De Felice, proveniente da Catania. Il falso frate andava distribuendo clandestinamente del materiale di propaganda socialista a individui fidati che avrebbero dovuto leggerlo pubblicamente e simultaneamente in vari comuni dell’isola il 1° gennaio. A Valguarnera la scelta era caduta su Gaetano Profeta.

 

 

1. La linea della mobilitazione di massa prende il sopravvento

 

La direttiva della manifestazione di Capodanno trova riscontro nel fatto che proprio per quella data si stava preparando una grande dimostrazione a Palermo.  L’accentuazione della lotta di massa era, infatti, la linea che in quei giorni andava prevalendo tra i dirigenti dei Fasci. Verosimilmente, il 10 gennaio 1894 si voleva dare dimostrazione delle capacità di mobilitazione che il  movimento aveva raggiunto nell’isola.

E' noto come di fronte all’accrescersi delle agitazioni popolari, da un lato, ed alla costituzione del governo Crispi, dall’altro, il gruppo dirigente avesse accentuato le sue divisioni. Colajanni, che giudicava positivamente l’avvento di Crispi al potere, cercava di far opera di mediazione tra il nuovo governo e i socialisti isolani. Bosco riteneva inattuale la prospettiva insurrezionale e cercava di scongiurare l’innesco della dinamica della repressione. De Felice, come ricorderà in seguito un suo stretto collaboratore, “voleva approfittare di quei momenti di febbrile entusiasmo per una trasformazione violenta dell’ordinamento dello Stato”.

In realtà, dietro il gran parlare di rivoluzione che De Felice faceva, non vi era alcun progetto né alcun serio tentativo. E’ vero che la voce di «una generale insurrezione nell’isola» per il 10 gennaio 1894 era probabilmente circolata nel comitato centrale dei Fasci tenuto ai primi di novembre, ma era rientrata a causa dell’energica opposizione del Bosco. A dicembre, i disegni insurrezionali esistevano solo nei timori di Crispi, alimentati dalle «fanfaronate da rivoluzionario di vecchia scuola», come Antonio Labriola definiva certi atteggiamenti di De Felice.

Durante la fase cruciale della vicenda dei Fasci, il gruppo dirigente era dunque diviso sull’atteggiamento da assumere. In attesa delle decisioni che sarebbero dovute essere prese nel corso della riunione del comitato centrale indetto per il 3 gennaio, l’iniziativa sfuggì dalle mani del Bosco per essere di fatto assunta dal De Felice. C’erano stati i nove morti di Giardinello e la repressione armata della manifestazione di Monreale; c’era stato il cambio di guardia a Roma che, secondo l’analisi prevalente tra i dirigenti dei Fasci, sopprimeva ogni margine di mediazione politica; il malcontento popolare cresceva. Si trattava di estendere la protesta che qua e là spontaneamente si manifestava, di intensificare la mobilitazione delle masse organizzate e non organizzate dell’isola, di indirizzarla contro il nuovo governo Crispi.

Si giocava pericolosamente col fuoco. Da un lato, infatti, era risaputo che le classi abbienti, unitamente ai funzionari di polizia, andavano in quei giorni alla ricerca di ogni episodio che potesse far scattare il meccanismo della repressione per «farla finita coi Fasci»; dall’altro, non si poteva ignorare la debolezza politica e organizzativa del movimento in paesi come Valguarnera e quindi l’estrema difficoltà di gestire una manifestazione di piazza in un momento in cui al malcontento popolare bastava ben poco per tramutarsi in uno di quei movimenti tumultuosi ed istintivi di cui era costellata la storia delle classi subalterne siciliane.

 

1.«Quest’anno il Bambino nascerà con la camicia rossa!»

 

In effetti, l’emissario di De Felice che con fare cospirativo giungeva a Valguarnera il 25 dicembre 1893, vi trovava un paese in fermento, pronto a esplodere alla prima occasione. La crisi delle campagne e delle miniere aveva fatto toccare dei livelli di miseria che — a memoria d’uomo — non si erano mai visti. Molte famiglie contadine erano ridotte a sfamarsi di erba e di pane nero. Decine di zolfatai da mesi non ricevevano il salario. L’indignazione contro le autorità municipali aveva raggiunto «le proporzioni più alte», come diceva Colajanni, essendosi ingigantita dopo l’arrivo in paese del nuovo delegato di pubblica sicurezza Avellone che, col suo atteggiamento prevaricatore e repressivo, sembrava essere l’uomo di fiducia della borghesia al potere piuttosto che un imparziale funzionario governativo. Inoltre, il «partito» d’opposizione soffiava da mesi sul fuoco dell’“odio profondo" che il popolo nutriva per il clan dei Prato.

 

Siamo nella fase di transizione tra lo schema 1 (situazione normale nella Valguarnera di fine Ottocento) al 2 (rottura degli equilibri ed esplosione sociale). Nel primo si registrano rapporti conflittuali (freccia piena) tra i due clan borghesi al potere così come - assieme a rapporti clientelari (freccia spezzata) - tra le classi popolari e la borghesia nel suo complesso. Nel secondo, quando gli equilibri si rompono e la conflittualità esce dallo stato latente, l’odio delle classi popolari si riversa piuttosto contro la borghesia al potere  (Clan A) che contro la borghesia in quanto tale.

Notava Antonio di Sangiuliano che i proprietari terrieri dell’isola non vedevano «altra àncora di salute che nel rigore della repressione, nel potere arbitrario del governo o de’ suoi funzionari», nella limitazione delle libertà personali e politiche. Lo stato d’animo della popolazione, davanti all’atteggiamento di aperta ostilità delle classi dirigenti era di «irritazione e di risentimento», come scriveva Colajanni, che vedeva fallire i suoi tentativi di mediazione. I lavoratori intuivano di essere «le vittime designate di un’imminente repressione» per cui «l’odio di classe ch’era vivo ingigantì; e ad ingigantirlo», come avveniva a Valguarnera, “contribuirono le notizie trasmesse oralmente o per mezzo dei giornali da paese a paese”. Il timore della repressione e la sensazione dell’ostilità dello Stato fecero sì che «negli animi dei popolani si ribadì incrollabilmente la credenza che non si poteva e non si doveva sperare giustizia dal governo».

Con questo stato d’animo si arrivò al mese di dicembre, quando «la passione prese il sopravvento», quando s’intravvide la speranza di ottenere miglioramenti «mostrando i denti», quando si pervenne - secondo Colajanni - a una vera anarchia politica e morale», nel senso che in molti comuni - e tra questi Valguarnera - la tensione non era incanalata politicamente, che l’esigenza della vendetta e della protesta non trovava espressione più matura. «L’attività politica e pedagogica dei dirigenti dei Fasci fu volta a dare forma civile, a incanalare l’ostilità o la rivolta contadina contro il mondo dei “cappeddi”, a esorcizzarla dalle sue forme più tristi e disperate». A Vai­guarnera ciò non era avvenuto; né De Felice né Colajanni avevano saputo o potuto esercitare tale funzione. Nel paese, i «Cottonaro» e i Profeta mostravano tutta la loro debolezza. Essi infatti agitavano — certo coraggiosamente — i problemi della popolazione all’interno della Società dei zappatori o della Cooperativa di consumo, ma — benché ispirata dalla propaganda socialista — la loro azione non riusciva a far uscire dallo spontaneismo l’esigenza di protagonismo che le masse andavano manifestando, a dare una prospettiva politica a un movimento di cui andava delineandosi il carattere antiborghese e anticapitalistico. Forse anche a Valguarnera, come altrove in Sicilia, quel giorno di Natale circolava la voce che «quest’anno il Bambino nascerà con la camicia rossa», che era giunto il momento della vendetta popolare contro i «civili» del paese e, nel contempo, quello della giustizia e della libertà.

 

3.      La manifestazione

 

La notizia che un emissario di De Felice fosse giunto da Catania e avesse portato a Gaetano Profeta del materiale di propaganda si era subito sparsa per il paese. Il «Cottonaro», all’ora di pranzo, andò dal Profeta a chiedergli quel materiale, dicendo che tra il popolo serpeggiava la volontà di effettuare quel giorno una manifestazione di protesta e che la lettura pubblica, in piazza, di quei giornali poteva servire allo scopo. Profeta face presente la direttiva della data del 10 gennaio, ma davanti alle insistenze del compagno, consegnò il materiale.

 

Telegramma cifrato della polizia (successivo al 1893): "Cessino ricerche anarchico Di Dio Michelangelo essendo rientrato Valguarnera. Sottoprefetto Ricci"

  Verso le quattro del pomeriggio, una folla si radunava attorno al «Cottonaro» in quella parte della via principale che si allarga quel po’ da consentire di essere chiamata la piazza del paese. L’episodio è analogo alle altre decine che nelle due settimane a cavallo tra il ‘93 e il ‘94 sconvolsero l’isola. La scena, come negli altri comuni teatro delle rivolte, è quella, descritta dal Romano, «di un povero paese con le case crollanti, le strade in rovina, mancante di acqua», con al centro il municipio, la chiesa principale, le sedi delle società, alcuni negozi; «tutto questo attorno ad una piazza, che è mercato nei giorni di fiera, sacro recinto delle feste religiose, luogo di convegno e di raccolta nei giorni di protesta e di rivolta». Gli attori, con poche variazioni, sono gli stessi che altrove: il «sindaco, il proprietario più accorto e potente del luogo, con il corteggio dei suoi familiari e clienti che occupano tutti i posti pubblici, da quello di medico condotto a quello di capoguardia, dal posto di maestra alla carica di giudice conciliatore». A Valguarnera questa oligarchia «chiusa ed esclusivista» non è compatta ma, come in molti altri comuni, dilaniata da lotte interne, è divisa in due gruppi.

Dall’altro lato si trova «la folla dei contadini, degli artigiani, della gente del popolo che si agita chiedendo un sollievo alle proprie miserie o un atto di giustizia, e dalla quale emergono talune figure, che tentano in modo ancora malcerto di sollevarsi contro tutto questo, sforzandosi di farlo in una forma diversa dalla rivolta tradizionale». Rispetto al prototipo delle classi subalterne protagoniste dei tumulti che Romano propone, a Valguarnera c’è da aggiungere la forte presenza della componente zolfataia; il resto è immutato. Mancano però inoltre, fra gli attori, quei soldati che in tanti comuni dell’isola spararono sui dimostranti inermi; assenza questa che evitò che anche a Valguarnera fosse consumata una strage.

Salito su di una panchina di pietra, il «Cottonaro» comincia a parlare a una folla che va aumentando fino a raggiungere le mille persone. Questo «popolano di nessuna cultura e di nessuna elevatezza, ma efficacissimo nel toccare certe corde assai sensibili dell’animo del popolo» esponeva, secondo il Magno, «un nuovo decalogo a base di odio e di avversione ai ricchi, e suggerendo la divisione delle terre». Era il «Decalogo dei Socialisti», pubblicato su uno dei giornali arrivati la mattina, che il «Cottonaro», come riferisce De Felice, «leggeva e spiegava con fede d’apostolo». Si trattava di un discorso che fu qualificato come «eccitante la popolazione alla rivolta contro autorità e governo» dal prefetto.

In realtà, sembra che il proposito del Di Dio fosse quello di effettuare una manifestazione di protesta, una prova di forza tinta con i colori del socialismo contro le autorità locali. È così, d’altronde, che queste interpretano la cosa. Dopo un attimo di sorpresa per quell’insolenza, la sfida popolare viene accolta. Due delle personalità più in vista del gruppo al potere, don Filippo Prato e il maestro Lanza, che assistevano alla scena da un angolo della piazza, invitano con un gesto il delegato a far smettere l’improvvisato oratore. L’«energico e fidato» funzionario di polizia esegue immediatamente gli ordini. Così De Felice descrive la scena:

 

«Ad un tratto, giunse il delegato e proibì quella lettura. — Perché? — osservò il Cottonaro. — Perché io voglio così rispose il delegato. — Vuole così? E la libertà...? — La libertà! La libertà! E, visto che il Cottonaro insisteva su questo suo diritto, con modi bruschi lo dichiara in arresto, lo afferra per un braccio, tenta di trascinarlo in caserma. I contadini presenti s’interpongono, ma egli li respinge; pregano, ma egli li disprezza; scongiurano, ma egli è sordo a tutte le esortazioni. L’indignazione sale mano a mano. Si sentono dei fremiti. Si grida: Lasciatelo! Il grido diventa urlo. Il delegato impallidisce, ma non lascia l’arrestato. Corrono due carabinieri, l’agguantano essi pure, lo trascinano lo malmenano».

 

 

4. La liberazione de/Di Dio e l’assalto alla caserma. Devastazioni e saccheggi

 

La caserma dei carabinieri in cui stava per essere condotto l’arrestato era abbastanza lontana dalla piazza, trovandosi nel vecchio castello dei principi Valguarnera. La folla vuole liberare il suo compagno, ma sulle prime non osa; segue a una certa distanza il gruppo formato dall’Avellone, dal «Cottonaro» e dai carabinieri. Racconta De Felice:

 

«La rabbia si legge nel volto di tutti i presenti, l’urlo si fa colossale, la tempesta si avvicina; comincia qualche movimento, si avverte qualche urto, vola qualche sasso. I carabinieri sono diventati furibondi anch’essi ma quando l’urto assume le proporzioni di una corrente che travolge e trascina, ed il popolo grida: lascia! lascia! e si slancia e strappa l’arrestato dalle mani dei carabinieri, questi lasciano il Cottonaro, tirano le rivoltelle, fanno fuoco e scappano. Il delegato si era già eroicamente... squagliato».

 

Il «Cottonaro», ormai libero, fugge a piedi a Enna a cercare rifugio e consiglio presso Napoleone Colajanni. Prima di partire, invita la folla alla calma, ma la gente è eccitata, forse dalla «facile vittoria», come pensa il Magno, o forse dai colpi tirati in aria dai carabinieri, come sostiene il De Felice. Nella confusione, molti non sanno che l’arrestato è fuggito. Ormai “il popolo è ammutinato” scriverà un giornalista: «s’erano armati anche i giovanetti e le donne avevano piene di pietre i grembiali». Si sente che l’ora della vendetta popolare è scoccata. L’arresto del Di Dio non era stato che l’ultimo anello di quel «fatale concatenamento di episodi, di provocazioni e di reazioni» di cui parlava Colajanni per giustificare «la parte popolare anche là dove trascese».

Il tafferuglio, durante il quale il «Cottonaro» è liberato e l’Avellone buttato a terra, avviene in piazza Marotta, a due passi dalla caserma, dove i tre carabinieri corrono precipitosamante a rifugiarsi. Sempre De Felice:

 

«La folla, fuori di sé, assedia la caserma; vuol prenderla d’assalto, lancia sassi alle finestre, da cui i carabinieri tirano diversi colpi di carabina; tenta, con travi, di sfondare la porta. È un momento difficile. I carabinieri non sono che quattro. Guai se li prendono! Ma una voce si leva in mezzo ai contadini furenti: Niente sangue! Niente sangue! E quella fiumana di popolo leva l’assedio alla caserma e corre disperata pel paese”

 

Il corrispondente da Valguarnera del «Giornale di Sicilia», testimone oculare degli avvenimenti, così racconta i fatti che seguirono:

 

«La folla discese nella piazza del Municipio, si munì di petrolio, rubandolo a viva forza nelle più vicine botteghe dei rivenditori, ed incominciò a dare l’assalto al Palazzo Comunale. Il maestro Lanza, fiducioso nella sua parola, che spesso è riuscito a calmare le ire dei tumultuanti, salì coraggiosamente su di una scala a pioli e cominciò ad arringare, a scongiurare, perché smettessero le distruzioni da vandali. Inutile; poco mancò che non si scagliassero contro di lui.

 

Il pretore, forse perché scambiato per il delegato o forse perché cercava di indurre i dimostranti alla calma, si buscava qualche legnata. Don Filippo Prato, a un popolano che gridava «Abbiamo fame», rispondeva con disprezzo «Andate a mangiare pale di fichidindia!».

I «civili» erano fuggiti nelle loro case, abbandonando il loro circolo. Mentre si dava l’assalto al municipio, qualcuno «appiccò il fuoco ai mobili del Casino dei Civili, le cui aperture sono immediatamente appresso al portone di entrata del Palazzo Comunale. Dal Casino tutti erano usciti e quando il cameriere aveva chiuse le porte il fuoco divampava nell’interno, ed il signor Ludovico Litteri nacosto in un armadio rischiò di morire abbruciato. Si diede coraggio e trovò modo di uscire, ma all’uscita incontrò resistenza in quelli di fuori. Fortunatamente riuscì a persuaderli che era dei loro e con loro, e la vita gli fu salva. Il portone intanto del palazzo comunale perdeva troppo tempo a consumarsi per aprire un varco, e resisteva ai colpi d’accetta. Spuntò una scala, e da un semicerchio libero, che trovasi nel mezzo del ventaglio di ferro, qualcuno penetrò nell’interno e lo spalancò. Salirono su e diedero fuoco al gabinetto del Sindaco primieramente, poi buttarono nel falò, acceso nel sottostante piano, mobili, libri, registri, tutto quello insomma che poterono tirar fuori dai balconi nella segreteria comunale, e nella cancelleria della Pretura. Da una porta laterale penetrarono nella S. Op. Domenico Mìnolfi, di recente aperta. Aprirono le porte d’avanti ed in breve l’elegante stanzone fu ridotto in una nera spelonca».

 

Secondo il prefetto, l’Associazione agricola di mutuo soccorso «dei zappatori» di cui era socio il «Cottonaro» e quella dei militari in congedo di cui era presidente quel Ludovico Litteri che riuscì a convincere i dimostranti «che era dei loro e con loro» — fornivano «maggior contengente ai saccheggiatori ed agli incendiari». La terza associazione di opposizione al partito municipale, quella intitolata al Principe di Napoli, «nei primi momenti fornì delle bandiere ai rivoltosi». Fu così che anche a Valguarnera i «rivoltosi» anziché le bandiere socialiste, brandirono, contro la borghesia locale, il tricolore sabaudo.

Non sono finiti di bruciare i resti del municipio che si sente gridare: «Alla posta! alla posta!». Si corre verso l’ufficio postale per impedire che vengano dalle autorità richiesti aiuti da fuori. Ma è troppo tardi; sia il delegato che i carabinieri erano riusciti a spedire dei telegrammi a Caltanissetta. L’impiegato inoltre — di sua iniziativa — aveva provveduto a telegrafare al sottoprefetto di Piazza Armerina. Si abbattono i pali del telegrafo, se ne tagliano i fili e si dà fuoco all’ufficio.

Si attaccano i casotti daziari, l’ufficio uscerile e quello del registro. Qui «il povero ricevitore si affaccia ignudo al balcone assieme alla moglie impietosendo la plebe con un suo bambino sulle braccia. Nessun male egli si ebbe», ma la «pesante cassa forte fu tirata fuori e scassinata a colpi di piccone». Poi si va al Monte di pietà. Ecco come De Felice racconta la scena che vi si svolse:

 

“Il signor Francesco Litteri, impiegato al Monte, si affacciò alla finestra e disse: “Popolo di Valguarnera, torna domani e ti darò i pegni. E' roba tua”. La folla rispose: A domani!  E andò via”.

 

Frattanto i «civili» terrorizzati sono fuggiti a nascondersi o “a richiudersi in casa ad organizzare i mezzi per la difesa della vita e della proprietà”. Completata la distruzione degli uffici pubblici, «la folla furente, ardendo tizzoni ardenti ed emettendo grida di rivoluzione» cerca «con terribile insistenza» il delegato e il sindaco. Questi é già fuggito; nel suo palazzotto, “i tumultuanti” — come le cronache dell’epoca definiscono i dimostranti — non trovano che le donne:

 

«All’appressarsi dell’onda, le donne della casa del sindaco, spaventate, piangenti, fuggirono nelle case vicine, lasciando le porte aperte; e in un attimo la folla salì le scale, si precipitò negli appartamenti e in tre minuti compie l’opera devastatrice: mobilio, biancheria, specchi, tutto, tutto venne distrutto, o spezzato sul posto, o precipitato sulla strada, dove altra folla si curava di ammonticchiare e mettere fuoco ai rottami».

 

La stessa sorte tocca all’abitazione del delegato, «senza riguardo alle donne chiedenti pietà», come diranno le cronache. Si assaltano poi altre case, applicando una sommaria giustizia di classe. Vengono devastate le abitazioni dei «civili» più malvisti e quelle di chi pratica l’usura; sono invece risparmiate le case di quei borghesi che vengono giudicati “buoni”. Ecco un episodio raccontato dal De Felice:

 

«La folla si inoltrava nel paese; molti temevano per loro e per le loro famiglie; tutti credevano, essendosi sviluppata spontanea la più violenta manifestazione della più viva lotta di classe, che tutte le case dei borghesi sarebbero state messe a fuoco. Un contadino, certo Tedesco, quando la folla giunse sotto la casa del suo padrone, salì sopra un sasso e pronunciò pressapoco queste parole: “Fratelli di sangue, sapete che il mio padrone è buono e che ci ha trattato sempre bene... Rispettatelo”. la folla rispose con un grido: E vero! E vero! E tirò innanzi».

 

Non così per la casa di don Filippo Prato. Trovatala chiusa, i «petrolieri» ne abbattono la porta e la mettono «a sacco e a fuoco». Vengono anche prese d’assalto le case del defunto vicario Fichera, dell’ufficiale postale, del “falegname-proprietario” don Carmelo Giannone, del negoziante di tessuti Calogero Franco; questi ultimi due sono sospettati di praticare lo strozzinaggio. Non mancano i saccheggi. Nei magazzini del Prato, come scrive un cronista, «il popolo valguarnerese andava come in un pubblico granaio». Il Magno, a sua volta, racconta che

 

«Uomini, donne, bambini passavano carichi di masserizie, di stoffe, di utensili domestici, con la pazza gioia di avere rifornito la propria casetta di tante cose mancanti, e che a torto stavano nelle case dei ricchi. Si riposavano ogni tanto e poi ripigliavano il cammino. Dai balconi spuntavano certi ceffi che divertivano la folla sottostante vestiti con cappelli di signora o da prete suscitando evviva formidabili.»

 

Verso le dieci si decide — com’era stato fatto nel ‘48 — di fare l’assalto alle carceri e di liberarne i detenuti. Vi è una colluttazione durante la quale un carabiniere è leggermente ferito. Uno dei detenuti, Carmelo Piazza, “povero contadino di Canicattì”, racconta:

 

“Alle dieci, una folla immensa composta di donne e di uomini armati solo di bastoni si precipitò nelle prigioni gridando: Abbasso le tasse! Abbasso il delegato! Viva la libertà! Il carceriere dovette aprire le porte ai detenuti che erano 14, di cui 11 di Valguarnera”.

 

I liberati vengono portati in trionfo per le vie del paese «alla luce delle fiaccole di paglia, di tizzoni e di masserizie bruciate».

Verso la mezzanotte, quasi tutti sono tornati a casa. Giustizia è stata fatta. E’ stato liberato Michelangelo Di Dio, sono stati distrutti gli strumenti tangibili dell’oppressione, sono stati puniti i «civili» più odiosi e gli usurai, sono stati liberati i detenuti. Alcuni hanno portato a casa un sacco di frumento o un vestito. Non sì è voluto spargere sangue, come fa notare De Felice a difesa dei dimostranti:

 

«Il proposito di non spargere nemmeno una goccia di sangue era stato da tutti manifestato ad alta voce. L’on. La Vaccara vuole che si sappia che quel grido si senti correre in mezzo al tumulto: Niente sangue! Ché, continua De Felice, se sangue si fosse voluto versare, se ne sarebbe potuto versare, e molto, essendo rimasto, per molte ore, in balia dei dimostranti, il paese».

 

E Colajanni aggiunge che a Valguarnera «i tumultuanti posero in cimento la propria vita per salvare alcuni fanciulli in una casa cui avevano appiccato l’incendio». Ci furono, però, parecchie rapine, che — a detta del deputato ennese — non si ripeterono in nessun altro paese durante i tumulti di quei giorni. Esse si spiegano col fatto che, sul tardi, quando i dimostranti erano tornati a casa, «non restarono a spadroneggiare se non una trentina di malviventi che non miravano ad altro se non a rubare»

 

5.  L’intervento dell’esercito. Arresti e perquisizioni

 

Furono soprattutto costoro a essere sorpresi verso l’una dai primi carabinieri venuti da Piazza Armerina, mentre svaligiavano il “vasto negozio di tessuti» del consigliere comunale Calogero Franco, nella stessa piazza in cui nove ore prima erano cominciati gli incidenti:

 

«Mentre erano intenti a far bottino, verso l’una e un quarto, giunse una pattuglia di carabinieri e soldati. Il grosso di essi incominciò ad arrestare quelli che uscivano dalla porta che dà nella via secondaria opposta all’altra che dà nella pianura. A questa, un solo carabiniere certo Paperìni, che segnalo all’ammirazione del pubblico, tenne testa a tutti quelli che volevano uscire. Gridava, sparava, fingeva di comandare a una squadriglia ed era solo. Gli fu diretto un colpo di pistola che andò a vuoto. Un cittadino gridò: Viva la forza! Molti gli fecero eco e quel coraggioso lasciò il suo posto, quando nel negozio non c’era nessuno»

 

Subito dopo, giunge un’altra pattuglia di dieci carabinieri, guidata dal tenente Enrico Guglielmini, comandante la tenenza di Piazza Armerina. Nel rapporto che durante la notte spedisce al sottoprefetto, egli scrive tra l’altro:

 

«Verso l’una di stamane giunsi a Valguarnera dove trovai il sig. Serva con 20 militari arrivati poco prima percorrendo strade campestri. Il predetto ufficiale si portò subito alla caserma e quindi alle vie principali procedendo a 13 arresti di persone sorprese in flagranza di furto. Mentre entravo in paese con 5 carabinieri a cavallo e 5 a piedi, furono sparati contro la pattuglia colpi di fucili. Il carabiniere Rabulina Alessandro rispose con colpi di moschetto contro circa 50 persone. Per ora ignoro se sianvi morti o feriti fra borghesi. Il carabiniere Castel Alfredo riportò lesione non grave alla testa. Mi accingo a ricercare Sindaco, Delegato e Pretore. Finora non giunse compagnia Castrogiovanni (Enna, ndr). Occorre un immediato rinforzo di almeno 250 uomini per procedere arresti e prevenire disordini ed anche sanguinoso conflitto. La popolazione è allarmatissima, però la sommossa par vada quietandosi. Ritengo che sul far del giorno reagiranno per ottenere la scarcerazione degli arrestati. Soggiungo infine che tutti i rinchiusi in queste carceri mandamentali in numero di circa 15 vennero dagli occupanti rimessi in libertà. Prego telegrafare nuovamente Castrogiovanni procurando adunare maggior numero possibile militari».

 

       La prima notizia dei fatti, telegrafata al sottoprefetto di Piazza Armerina prima dell’interruzione della linea, veniva da questi comunicata al prefetto di Caltanissetta, che alle ore 23,25 — quando il paese era ancora in mano ai dimostranti — in questi termini ne dava comunicazione al ministero degli interni:

 

«Dal sottoprefetto di Piazza Armerina mi viene telegrafato che oggi alle ore 17 l’arresto di un pregiudicato per opera Arma Reali Carabinieri ha dato luogo sommossa popolare. Furono rotti cristalli finestre ufficio telegrafico ed indi folla tumultuante corse minacciosa verso caserma Reali Carbinieri. Sottoprefetto ha dato occorrenti disposizioni perché si recasse sul posto forza da Piazza e da Castrogiovanni. Ribelli avendo rotto fili telegrafici nei pressi di Valguarnera non è stato possibile avere finora più particolari notizie. Manderò subito ulteriori ragguagli. Derosa».

 

Il telegramma è vago e impreciso, ma la reazione di Crispi è immediata e decisa. Nella mattinata del giorno successivo, lo statista siciliano invita, con un telegramma cifrato, il prefetto e la magistratura alla repressione:

 

«Confido che per fatti di Valguarnera l’autorità giudiziaria abbia iniziato regolare procedimento. F.to Crispi»

 

Subito dopo questo messaggio, il prefetto Derosa è in grado di comunicare al Crispi maggiori dettagli, avendo avuto notizia del rapporto del tenente Guglielmini:

 

«Jersera folla furente percorse paese emettendo grida di rivoluzione, appiccando il fuoco Municipio, Casino Civili, casa del delegato, casa sindaco, telegrafo, Pretura, Ufficio Registro e Posta. Motivo sommossa fu arresto operato dal delegato in persona di individuo che eccitava popolazione alla rivolta contro autorità e governo. Delegato per tener fermo l’arrestato dovette chiedere carabinieri che furono costretti sparare in aria colpi di rivoltella e moschetto, dal che derivò che folla mille persone tentò invadere caserma e non avendovi potuto penetrare, intimorita dai colpì di fucile in aria si riversò furente nel paese con grida di rivoluzione e incendio. Non è stato possibile avere altre notizie non ostante abbia disposto nella scorsa notte fossero partiti espressi comuni viciniori cagione lunghissima distanza. In questo momento mi reco personalmente sul posto in compagnia colonnello Pittaluga comandante zona e capitano carabinieri. Ho fatto partire digià per quella altre due compagnie. Pref. Derosa».

 

Intanto a Valguarnera, dopo l’arrivo delle prime due squadriglie, giungeva all’alba altra truppa da Enna, comandata da un capitano. Ai carabinieri e ai soldati si univano «settanta persone civili armate per ristabilire calma, tutela funzionari locali e loro famiglie ricoverati in caserma carabinieri»

Queste “persone civili armate”, come le chiama il prefetto, sono dei borghesi che, accompagnati dai loro campieri, cercano di prendersi una rivincita. Si pattugliano le vie del paese, si procede alle perquisizioni domiciliari e agli arresti. Da un lato, si teme che la rabbia popolare riesploda, dall’altro, si vogliono catturare subito i «capi direttori» della rivolta.

Napoleone Colajanni cita più volte il caso di Valguarnera come esemplare della partigianeria esercitata da chi dirigeva la repressione. Come scriveva De Luca, in Sicilia, dopo i tumulti, tutti avevano da temere poiché “i cavalieri, i commendatori, i baroni, i sindaci ed i deputati presentavano sulle liste di cattura e di proscrizione non solo i nomi di quei che loro avevano fatto un lievissimo torto o erano semplicemente antipatici o sospetti alle illustrissime signorie"”

Così a Valguarnera, dove, secondo Colajanni, «i moventi degli arresti in massa sono talmente laidi da far ribrezzo», inoltre, sempre secondo il deputato ennese, «molti che furono maggiormente responsabili delle rapine e degli incendi si assicurarono l’impunità facendola da delatori e mettendosi ai servigi delle autorità politiche e amministrative, denunziando cittadini onestissimi, facendoli arrestare o costringendoli a fuggire. E i latitanti, infatti, furono a centinaia». Tra questi, il <Cottonaro», che sì costituì solo dopo parecchi mesi.

Agli arresti e alle perquisizioni si procede per tutta la giornata del 26. Gli arrestati vengono man mano rinchiusi nella caserma dei carabinieri. E’ lì davanti che nel pomeriggio un gruppo di popolani trova il coraggio di effettuare una nuova inutile manifestazione. Telegrafa il prefetto:

 

«[...] fino alle 17 di oggi vi fu calma perfetta, ma alla detta ora, nuova folla tumultuante fecesi innanzi caserma carabinieri al grido: Abbasso le tasse! Al secondo squillo di tromba fatto dal capitano comandante le truppe la folla si sciolse».

 

Nello stesso pomeriggio, avveniva un incidente causato dalla tensione non ancora sopita. Mentre dava manforte ai militari nel pattugliamento del paese, «un gruppo di onesti cittadini s’imbattè, nella via del Canale, in una squadriglia di soldati che aveva la consegna di non far passare nessuno. Furono due colpi in aria ferendo due persone affacciate ai balconi. Ma l’equivoco si dissipò e la calma relativa si è ristabilita».

La sera, quando giunge il prefetto in compagnia del regio procuratore, del giudice istruttore e del colonnello comandante la zona militare, Valguarnera «presenta l’aspetto di una città caduta in mano d’un esercito nemico».

La notte trascorse tranquilla. L’indomani mattina però «osservansi nuovi gruppi tuttavia minacciosi, specie presso l’entrata dell’abitato». La truppa «che è in giro per disperderli» non sembra sufficiente al prefetto che dispone l’invio di due altre compagnie da Caltanissetta «per rincorare lo spirito dei cittadini abbastanza depresso». Nel corso della giornata, «l’azione della polizia giudiziaria prende maggior svolgimento», continuano le perquisizioni e gli arresti «in mezzo alla soddisfazione dei danneggiati», come telegrafa il prefetto al ministero degli interni. I quotidiani nazionali di quel giorno danno le prime sommarie informazioni sui «tumulti di Valguarnera».

 

6. Si riunisce il consiglio comunale. La proclamazione dello stato d’assedio

 

La mattina del 28 dicembre, nell’aula consiliare bruciacchiata, con sedie e tavoli presi in prestito dalle case vicine, si riunisce il consiglio comunale alla presenza del prefetto e del colonnello. Il prefetto, che aveva convocato il consiglio, interviene per primo invitando “la parte eletta ed onesta della cittadinanza a stringersi in un sol fascio spezzando le barriere di partito per contrapporre un argine ai conati sovversivi e criminosi del basso fondo sociale”. Secondo il Derosa, si deve infatti alle “cittadine discordie” se coloro che “non meritano l’onore di appellare socialisti, nemmeno anarchici, ma bensì traviati, nel cui cuore non alberga altro sentimento che l’odio contro l’uma­nità” hanno potuto «pescare nel torbido». Conclude proponendo di «sciogliere un voto di ringraziamento e di plauso ai valorosi militari» che hanno liberato il paese dall’«orda briaca e feroce dei petrolieri e dei saccheggiatori».

Prende poi la parola il consigliere Giuseppe Oliveri, uomo di punta del «partito municipale». [Sue sono le poesie dialettali presenti nel sito “Valguarnera da leggere”, ndr]. L’oratore, che è anche consigliere provinciale e che succederà all’avvocato Gaetano Prato nella carica di sindaco, accetta sostanzialmente la tesi del prefetto sulle origini della sommossa, invita alla «fusione dei partiti» e anzi, rifacendosi al recente discorso con cui Crispi aveva presentato il nuovo governo alle Camere, sostiene di «essere giunta l’ora di farla finita coi partiti». Propone di chiedere al governo «un largo sussidio per riparare i danni sofferti dal comune», di dare ampi poteri alla giunta municipale per ristabilire i servizi pubblici e conclude ringraziando il prefetto «che ci ha portato il più soave conforto e la fiducia di un’esemplare punizione degli autori delle violenze che» secondo il consigliere valguarnerese, «non hanno riscontro che nei fatti della Comune di Parigi».

L’avvocato Prato rassegna le dimissioni dichiarando «di non poter più oltre continuare ad esercitare le funzioni di sindaco». L’Oliveri lo invita a ritirare le dimissioni, «le quali in questo momento, oltreché produrrebbero danno al Comune, darebbero soddisfazione ai pravi desideri di quella canaglia che ha gettato il paese nella desolazione e nel lutto» essendo — come aveva già rilevato il prefetto — «lui e la desolata sua famiglia, vittime designate di tanta efferata strage»

Dopo che il consiglio ha respinto all’unanimità le dimissioni del sindaco ed adottato per acclamazione le proposte dell’Oliveri, la seduta viene sciolta. Non è stato fatto nessun accenno alla miseria della popolazione, né alla crisi economica. Nessuno si è chiesto — né il prefetto, né alcun consigliere — quali fossero le reali cause della rivolta, né perché gli esponenti più potenti della borghesia che controllava il paese fossero stati le “vittime designate» della vendetta popolare”.

Intanto è arrivata altra truppa, si continuano le perquisizioni e si effettuano nuovi arresti, giungendo — secondo Colajanni — ai trecento arrestati. Il valore della merce recuperata durante le perquisizioni domiciliari o  per le strade, dove era stata gettata da chi temeva di essere scoperto, veniva da fonte governativa calcolato attorno alle centomila lire. I danni prodotti dalla rivolta, invece, si facevano ammontare attorno al milione di lire, cifra che Colajanni riteneva molto esagerata.

Tra gli arrestati, dopo una sommaria istruttoria, venivano selezionati quelli da tradurre nelle carceri di Caltanissetta, dove venivano condotti a piedi. Il 29 vi giungevano i primi tre gruppi per un totale di cinquantasei persone, tra cui diciannove donne e due vecchi ammalati. Sono essi a essere intervistati da De Felice il 30 dicembre. Il deputato socialista, infatti, al fine di effettuare l’inchiesta sui fatti di Valguarnera che si proponeva di pubblicare sul “Siciliano”, preferisce recarsi nelle carceri del capoluogo piuttosto che in paese, dove «i lavoratori sono fuggiti o arrestati, le loro famiglie temono di compromettersi e i rimasti non parlano certamente». Prima di effettuare l’intervista, De Felice descrive la pietosa condizione dei detenuti:

 

«Gli arrestati di Valguarnera, uomini, donne, vecchi, furono trascinati a piedi a Caltanissetta. Circa 41 chilometri! C’erano parecchie donne coi bambini al collo e diversi vecchi, stanchi, trafelati, sfiniti, che facevano pietà. Al loro arrivo una popolazione muta, commossa, piangente li accolse. Piangevano anche alcune delle arrestate: quelle che avevano dovuto abbandonare i loro bambini a casa».

 

Tra di esse c’è la moglie del «Cottonaro», Marianna Ardeni, che De Felice trova piangente «perché, all’atto dell’arresto, le fu strappato dal collo l’ultima sua bambina di due anni».

Intanto gli avvenimenti precipitano. Dal 25 dicembre ‘93 al 5 gennaio ‘94, decine di manifestazioni popolari hanno luogo in tutta l’isola. Si protesta contro le tasse e contro le amministrazioni comunali. Si tratta di «moti isolati e convulsionari» come li definisce il comitato centrale dei Fasci, che nel manifesto del 3 gennaio rileva come l’agitazione popolare «metta la borghesia nella necessità o di seguire le esigenze dei tempi o di abbandonarsi a repressioni brutali». Seguire le esigenze dei tempi per i Fasci significava operare riforme che incidessero sull’assetto semifeudale della società siciliana, che colpissero il latifondo e la rendita parassitaria, che stimolassero la cooperazione, che migliorassero le condizioni dei lavoratori. La borghesia locale e il governo si abbandonano invece a una brutale repressione. Alle masse che pacificamente manifestano al grido di «Viva il re» e «Abbasso le tasse», esercito, campieri e guardie municipali rispondono sparando. Si va così dagli undici morti di Lercara il 25 dicembre ai 15 trucidati di Santa Caterina Villarmosa del 5 gennaio, passando per i massacri di Pietraperzia, di Gibellina, di Belmonte, di Marineo ecc.

Crispi e il re agiscono in perfetta sintonia con la reazione isolana. Il 3 gennaio proclamano lo stato d’assedio in Sicilia. Si sciolgono i Fasci e le associazioni operaie , si colpisce la libertà di stampa e di riunione, si arrestano i dirigenti socialisti e migliaia di cittadini, si istituiscono tribunali militari di guerra che distribuiscono centinaia di anni di carcere.

 

7. Il processo

 

Uno dei tribunali è istituito a Caltanissetta; è qui che viene celebrato il processo. I «partiti municipali» cercano di sfrutta­re l’occasione favorevole per colpire non solo l’opposizione popolare, ma anche quella borghese. Le autorità dello Stato assecondano spesso questi disegni. Per istruire i processi, secondo Colajanni, «si confidò esclusivamente nei partiti locali al potere. L’appartenere, anzi, ad un partito avverso a quello do­minante costituiva già una presunzione di colpa [..j. Perciò a Valguarnera si volevano processare i principali e più temuti avversari del sindaco e molti se ne arrestano e processano». Il 23 febbraio, mentre il processo è ancora in fase istruttoria, Colajanni ne parlò alla Camera:

 

«[...] A Valguarnera s’istruisce un processo, nel quale si implicano cittadini ricchissimi e conosciuti per le loro idee temperate. E sapete perché? Perché si spera farli condannare dai tribunali militari, per poi renderli responsabili civilmente dei danni arrecati dagli incendi. (Com­menti). Crispì, presidente del Consiglio. È un’ asserzione vostra. Ciò non avverrà mai! Colajanni Napoleone. Certamente l’asserzione e grave, e perciò la sottometto alla vostra attenzione. Tentano, non so se ci riusciranno. Crispi, presidente del Consiglio. Nessuno tenta di queste bricconate! Sono sotto processo perché sono ritenuti colpevoli. Colajanni Napoleone. A Valguarnera vi era un delegato di pubblica sicurezza che conosceva il paese da molto tempo, il quale si rifiutò di consentire alle istigazioni del sindaco e della maggioranza locale, e di comprendere nel processo codeste persone. Questo delegato coraggioso ed onesto fu allontanato da Valguarnera, ed allora cominciò la seconda fase del processo. Onorevole Crispi, io sinceramente vi credo uomo leale, e però v’indico il caso. Spetta a voi di farmi diventare bugiardo, di far sì che l’infamia non sia compiuta. E voi lo farete».

Per dovere di cronaca, se non altro, va riferito il fatto che delle «bricconate» che si stavano compiendo a Valguarnera il Crispi era stato avvertito quasi un mese prima dal deputato La Vaccara, per cui la fiducia di Colajanni nella lealtà del presidente del consiglio o era mal riposta o era solo un artificio oratorio.

A fine febbraio, su 141 imputati ne vengono rinviati a giudizio 73, di cui 57 in stato di arresto e 16 in latitanza. È la prima fase del processo, di cui riferiva Colajanni alla Camera. A metà marzo, dopo l’eliminazione del pretore e del delegato che si opponevano ai disegni di quella che La Vaccara chiamava la «cricca spadroneggiante», i rinviati a giudizio salgono al numero di 103, di cui cento presenti al dibattimento perché arrestati o costituitisi e tre ancora latitanti. Sono imputati di devastazione, saccheggio e procurata evasione di detenuti.

Il processo si svolse in un clima di forte tensione, dominato dal desiderio della vendetta, dalla reticenza, dalla falsa testimonianza:

 

“Agli accusatori sfacciatamente partigiani, odiosamente animati dal sentimento della vendetta I...] corrisposero i testimoni comprati con oro sonante o reclutati tra le guardie di città e tra le guardie daziarie che tutto potevano essere meno che sereni. Epperò nel processo pei fatti di Valguarnera parecchi testimoni smentiti dalle persone più autorevoli e convinti di mendacio o di reticenza furono incriminati per falsa testimonianza” (Colajanni).

 

E ancora:

 

“Di testimoni mendaci, reticenti, interessati a mentire a danno degli imputati si sa qualche cosa; di più se ne saprà del caso della Barone di Valguarnera, che a dire il falso se non fu indotta dalle promesse del delegato Munizio, vi fu certo dalla speranza di salvare dalla prigione il marito fratello al Cottonaro. Il Polizzi, della stessa Valguarnera, narra una circostanza a carico di De Felice in quattro modi diversi e non sa dire mai la verità, neppure per isbaglio! come disse il Presidente del Tribunale di Guerra”.

 

A parte i fatti puntualmente denunciati da Colajanni, si tratta di un vero e proprio «processone» (i testimoni sono ben 384) condotto dalla magistratura militare in maniera sbrigativa e, verosimilmente, punitiva. Due settimane dopo l’inizio degli interrogatori viene emessa la sentenza; sono con­dannate 38 persone per un totale di circa due secoli di carcere. La condanna più grave — 15 anni di reclusione — la riportano Gaetano Profeta, Liborio Di Vita e Gioacchino Loggia.

Solo questo, assieme al fatto che nessun borghese fu condannato, è quanto sappiamo del processo, i cui verbali sono verosimilmente andati distrutti. Il corrispondente da Caltanissetta del «Giornale di Sicilia» riferisce, però, la scena che ebbe luogo alla lettura delle sentenza:

 

«Appena pronunciatasi la condanna dei primi imputati, una donna da Valguarnera si dà ad emettere grida disperate che provocano una vera confusione, I parenti degli imputati presenti alla lettura cominciano a gettarsi per terra, a piangere, a fare un diavolo tale che il tribunale è costretto a sospendere la lettura della sentenza».

 

Valguarnera, 20 febbraio 1894. E’ tornato l’ordine: autorità civili e militari in posa

 

Queste grida di disperazione e di rabbia sembrano rappresentare emblematicamente la sconfitta che il movimento popolare subì a Valguarnera come in Sicilia a conclusione della vicenda dei Fasci. La borghesia del paese, ancora per molti anni, sarà ossessionata dal timore «dell’improvviso scoppio di una sommossa che rinnoverebbe le scene selvaggie del 25 dicembre 1893», ma, in realtà, la sua egemonia fu consolidata da quegli avvenimenti, mentre contadini e minatori cominceranno a riaversi dalla sconfitta solo parecchi anni più tardi. Sotto l’incalzare della crisi, assieme ai Fasci, era stata sognata una società nuova. Con la svolta autoritaria operata dal Crispi venivano ripristinati i vecchi meccanismi. Per le classi subalterne siciliane si apriva una pagina nuova, quella dell’emigrazione.

 

Tratto da: Enzo Barnabà “Il Meglio Tempo. I Fasci nella Sicilia interna." Prefazione di Giuseppe Giarrizzo. Intervento di Francesco Renda”, Il Lunario, Enna, 1998