PARLIAMO DI....

 

 

 

CRISTO SI È FERMATO A PAPARANZA?

 

 

Curando per questo sito la rubrica “Un proverbio alla settimana”, che trae origine da un repertorio di aforismi nostrani raccolti e commentati dal dott. Francesco Giarrizzo, mi sono improvvisamente rivisto adolescente nella mia casa di via Treves con in mano un libro dalla copertina bordata di rosso ed i fogli di carta grigiastra, quello di cui quest’anno si celebra il sessantesimo anniversario: “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi. Niente è meno cristiano, infatti, di massime quali Nan far’ ben’ ch' mal’ t’ n’ ven’ o Cu av’ pena d’ i carn’ d’ l’àutr’, i suwi s’i màngian’ i can’ (con la variante: Cu av’  pena d’ l' àutr’, a so pedd’ s’ a màngian’  i can’) o ancora Cu d’ sceccu fa cavadd’, u prìm’ càuc’ è u so (con la variante Cu r’ a pe u minta a cavadd’, u prìm’ càuc’ è u so). La carità cristiana e l’amore per il prossimo vengono fatti a pezzi da queste pillole di saggezza (così vengono abitualmente definiti i proverbi, ma sarebbe meglio usare in questo caso la parola “ideologia”) popolare. La chiusura egoistica sconfigge anche il familismo, abitualmente saldissimo pilastro del mondo referenziale isolano: Sa ch’ serv’  e to djnt’  na n  dar’  e to parjnt’.

Ritroviamo qui - mi sembra - quel rovesciamento di valori di cui parla Italo Calvino a proposito dei mimi lanziani a sfondo religioso. Se il Vangelo racconta una storia umana riferendola a un significato sacro, l’aneddoto paesano fa “insorgere i segni profani contro il sistema dei simboli sacri” (Introduzione ai “Mimi siciliani” editi da Sellerio nel 1971), compiendo l’operazione simmetrica che largamente rintracciamo in questi proverbi. Se sostituiamo, infatti, le parole chiavi dei citati aforismi con il loro contrario, entriamo con chiarezza nel pieno della morale evangelica.

Il Cristo di Levi, com’è noto, si ferma alla lontana stazione ferroviaria, tagliando fuori l’immobile millenaria civiltà dei contadini della Basilicata; è la Storia, insomma. Il nostro – quello che (salvo non rare vittoriose incursioni) ha dovuto fermarsi a Paparanza – è invece il Cristo storico, il cui messaggio non è riuscito a conquistare il nostro paese (nè gli altri paesi dell'interno siciliano, beninteso) avendo trovato strenui resistenze. E queste resistenze da dove provengono? Sono vigorose sopravvivenze del paganesimo oppure ordinari comportamenti di chi crede che la lotta per la vita non accetti freni, che l’uomo sia sostanzialmente rimasto la bestia primordiale cui è estraneo in concetto di solidarietà (l’“homo homini lupus” di scolastica memoria, per intenderci)?

 Nel memorabile saggio “Feste religiose in Sicilia”, Leonardo Sciascia, scuotendo pigre certezze, sosteneva la refrattarietà del popolo siciliano alla trascendenza. E alla spiritualità? viene da chiedersi. Ovvero, la religiosità praticata è soltanto ritualità sociale (si pensi, tra l’altro, allo sfarzo della tavola di San Giuseppe o dell’altarino del Corpus Domini, utilizzati quali status symbol) e “do ut des” (lo scambio tra il fedele e il Santo al fine di veder risolti quotidiani problemi) o è animata anche da altro? Sembrerebbe che il cattolicesimo, così come ha storicamente preso corpo dalle nostre parti, si sia limitato a dare qualche pennellata di superficie lasciando immutata la sostanza. Chissà se qualcuno saprà dar risposta a queste domande che mi faccio e faccio.

 

Enzo Barnabà

 

 

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