L'ISOLA CHE NON C'ERA
di Enzo Barnabà


      Nel breve tratto della costa montenegrina che separa la Croazia 
      dall'Albania, all'altezza dell'Abruzzo, si apre l'insenatura più profonda 
      dell'Adriatico, un fiordo dalle acque placide chiuso da imponenti montagne 
      di là dalle quali é passato per lunghi secoli il confine tra occidente ed 
      oriente, tra l'Europa mediterranea ed i misteriosi Balcani. Sono le Bocche 
      di Cattaro, un fiordo che s'insinua verso l'interno per quasi trenta 
      chilometri, lambendo eleganti borghi dall'inequivocabile impronta veneta, 
      adagiati a ridosso di quei grandiosi costoni rocciosi. L'Adriatico 
      penetrando nelle terre genera due gruppi di baie - formidabili approdi 
      naturali - che tra loro comunicano tramite un esiguo passaggio, lo Stretto 
      della Catene, così chiamato perché nel medioevo tra le sue due sponde 
      venivano appunto tese delle catene a difesa della parte più celata del 
      fiordo, dagli attacchi della pirateria ottomana.

       
      Ad un tiro di schioppo dallo stretto, a fargli da guardia, Perasto, la 
      città "fedelissima e valorosissima", come la definirono i veneziani, che 
      aveva il privilegio di custodire il vessillo della Serenissima e di 
      fornire i dodici gonfalonieri che formavano la guardia ravvicinata del 
      Doge durante le battaglie. (E di questi nobili giovani, sia detto per 
      inciso, a Lepanto ne morirono ben otto per salvare Doge e gonfalone di S. 
      Marco). Oltrepassato lo stretto, proprio davanti a Perasto, si avrà la 
      sorpresa di scoprire due graziose isole che si fanno compagnia, poste come 
      sono l'una accanto all'altra. Da un lato, quella di S. Giorgio, col suo 
      boschetto di cipressi, che fu nel medioevo sede di un'importante abbazia 
      benedettina, centro di irradiazione del cristianesimo in questa parte dei 
      Balcani; dall'altro, quella dello Scalpello ("Gospa od Skrpjela" in 
      serbocroato ) la cui storia merita di essere narrata al viaggiatore.

       
      Nei tempi antichi l'isola non esisteva ancora; in quello specchio d'acqua 
      emergeva soltanto uno scoglio dalla forma appuntita dello scalpello. In 
      seguito ad un voto collettivo, a metà Quattrocento, i perastini presero a 
      buttargli rocce e sassi intorno al fine di farlo diventare un isolotto su 
      cui costruire un tempio dedicato alla Vergine. Un secolo dopo - siamo nel 
      1536 - non vedendo tangibili riscontri alla loro fatica (il fondale supera 
      i 40 metri), i cittadini, stanchi, decisero di risolvere il problema in 
      modo assai opinabile. Si recarono a S. Giorgio a sentir messa e alla fine 
      del culto, ingiunsero all'Abate (dopo la partenza dei Benedettini, i 
      perastini avevano con disappunto visto passare i luoghi nelle mani 
      dell'alleata-concorrente città di Cattaro) di consegnare loro l'isola con 
      i connessi titoli e diritti impostitivi. Al diniego, i congiurati 
      sguainarono i pugnali e fecero a pezzi il poveretto. Il Papa si affrettò 
      da Roma a scomunicare l'intera comunità, mentre Venezia la bacchettò a 
      dovere. Ai perastini, oltre che a chiedere perdono, non restò che 
      riprendere il loro estenuante lavoro. Un secolo dopo, a metà Seicento, 
      affondando anche più di un centinaio di relitti ricolmi di sassi, l'isola 
      aveva assunto la forma (quella di uno scafo) e le dimensioni (3030 m2) che 
      attualmente possiede: si poteva dare inizio alla costruzione della bella 
      chiesa barocca dall'elegante campanile circolare. L'opera di sei 
      generazioni di perastini che si erano per due secoli trasformati in 
      ostinate formiche, fatte le dovute proporzioni era stata immane quanto 
      quella per la costruzione della muraglia cinese. Ogni anno, il 22 luglio, 
      le barche della città legate come in un sol fascio (la cerimonia si chiama 
      appunto "fascinada") si recano in solenne e commossa processione 
      nell'isola evocatrice di storie e di fantasmi che sfumano e si perdono nel 
      mistero del passato. All'alba, quando i raggi orizzontali del sole 
      oltrepassano il Monte Lovcen e cominciano a rischiarare il fiordo, essa ci 
      appare utopica come a colui che per primo la sognò: un irreale, seducente 
      miraggio. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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