Il COMPLESSO
di Beatrice
Vacirca Arena
PREMESSA
Soffro del complesso (d’inferiorità naturalmente) della casalinga “scadente”: stento, da quando ho sposato Marco, a tenere la casa ordinata e pulita in ogni angolo.
Chi mi vuol bene sinceramente mi viene incontro giustificandomi: << La tua casa è troppo grande, e poi i bambini, gli affari che sbrighi per tuo marito….impossibile tenerla tutta a posto. Sarebbe impossibile per chiunque! >> Che cari, penso.
Chi, invece, mi detesta afferma che sono pigra, che
della casa non m’importa niente, che ho altro per la testa (come fanno a
saperlo?) e che tutto è dovuto al fatto che non ho avuto una mamma che me lo
abbia insegnato. E qui, come si suol dire, casca l’asino.
La
verità, che non tutti possono sapere, è che da signorina ero perfezionista
della pulizia, perché altrimenti, mi dicevano, non avrei trovato marito; ma una
volta trovato, forse inconsciamente, ho capito che l’unico, il massimo
traguardo prefissato l’avevo raggiunto e dunque perché sbracciarsi? Tanto né
l’ordine né il disordine avrebbero potuto migliorare o peggiorare la mia vita e
la mia situazione: analisi approssimativa ma sufficientemente ipotizzabile.
Marco, dal canto suo credeva
di aver sposato una ragazza “casalinga” a tempo pieno. Scoperto che si
sbagliava, e anche di grosso, non vi dico la delusione. Se fossi una casalinga
“vera”, sarei perfetta, dice Marco. Però so bene che il mio “difetto” è così
palese da diventare facile e gratuito per chiunque, con l’indubbio vantaggio, a
mio favore, di coprire magnificamente tutti gli altri.
Dato che ognuno di noi deve essere
dotato di almeno un difetto, dovrebbe tranquillizzarmi il fatto di rientrare
nei canoni.
Invece no: mi basta andare da chi è maniaca della
pulizia o venga a trovarmi chi appartiene alla categoria, per sentirmi
sprofondare come un’indegna usurpatrice della condizione umana.
Ma ho sperimentato quanto un complesso possa variare
di intensità, secondo l’individuo con cui si ha a che fare. Insomma un
surrogato di alibi. Giudicate pure. Io non mi offendo.
A bordo della mia Y10 lascio la strada comunale asfaltata e imbocco quella sterrata che in circa un chilometro e mezzo di percorso tutto in discesa, porta alla cascina Rosina.
La macchina sobbalza nelle
buche, gli alberi, ai lati della strada, si incrociano formando un arco e mi
vengono incontro con i rami bassi, come un tentativo per fermarmi, ma poi
battono sul parabrezza, strisciano sul tettuccio e mi lasciano campo libero.
La strada, inutile dirlo, è
una galleria di ombre, silenzi, colori, profumi.
Il cancelletto di steccato
rudimentale, regge, su un lato, una sbiadita bandiera italiana che sventola
vecchia e stanca: non c’è campanello. Il compito è stato affidato ai cani che
rabbiosi mi vengono incontro: neri, lucenti, insomma in buona salute.
Entro nel cortile raggirando una grande aiuola che fa da
spartitraffico. Non occorre farmi annunciare dal clacson, lei sa che arrivo e
poi i cani lo hanno urlato ai quattro venti e fatto sapere a tutto il
circondario.
Sulla soglia lei: Donata. È come l’immagine evocata da un documentario
d’epoca, di quelli in via di irreparabile estinzione, ma in perfetta armonia
con il luogo che la incornicia.
All’infuori dei tetti,
infatti, nella cascina nulla è mutato dall’epoca della costruzione e dunque a
una persona “moderna” risulta tutto fatiscente, ma per Donata sarebbe un
sacrilegio spostare, rinnovare, modificare.
Dopo l’accoglienza dei cani,
ricevo quella di galline, gatti, papere e oche che spadroneggiano liberi nel
cortile, sicuri che moriranno di vecchiaia (Donata non li vende e non li
mangia). Più lontano ci sono i conigli e, nella stalla accanto alla casa, ci
sono le capre. Nel grande prato, dentro a un recinto fatto di nastro colorato,
tre cavalli davanti alla loro stalla tutta in legno, da essere scambiata, da
lontano, per un piccolo chalet. Dietro la casa, un altro recinto con
un’asinella e, sul terreno accanto, le vasche dell’humus. In lontananza,
accanto ad un trattore, l’uomo tuttofare intento ad “aprire” il fieno con un rastrello
per farlo asciugare. Poi un grande fienile, un montacarichi e, al piano
terreno, un rifugio attrezzi, concimi di letame essiccato, granaglie, grossi
sacchi di mais, e tutto ciò che serve a un’azienda agricola.
Ma questa non è un’azienda
agricola.
Come al solito Donata è
vestita in modo spartano, assomiglia più a una contadina povera che alla moglie
dell’ingegnere, dirigente di un’importante multinazionale.
Indossa una vecchia tuta, un
vecchio maglione e un paio di zoccoli. Credo che non compri un indumento da
quando è venuta a vivere nella cascina, “fuori dal mondo”, come dicono in
paese, e cioè da quindici anni. In mano, l’immancabile sigaretta. I capelli,
che non sanno neanche che esistono le tinture, convivono, neri e bianchi,
tirati all’indietro in una treccia che scende fino alla vita. << Ciao
cara>> dice sorridendo con quella sua voce inimitabile, sinuosa,
aristocratica, ma non sofisticata, che non supera i decibel di sopportazione
dei timpani neanche quando urla. E’ una voce, come si dice oggi, “interiore”.
<< Ciao. Con questo caldo porti i
calzettoni?>>
<<Ma si. Mi sono versata addosso il pastone
bollente dei cani ed ho la gamba tutta una piaga>>
<<Cribbio! E il medico? >>
<< Sììì!!
Il medico avrebbe voluto ricoverarmi ai grandi ustionati, ma a chi
lascio le mie creature? Mi ha dato una pomata, li ho bendate e poi prendo
decotti di ortiche >>
<<Ortiche?>>
<<Si ortiche. Non conosci il potere delle
ortiche? Fanno miracoli. Fuori possono, i medici, darmi degli intrugli, ma
dentro, la vera e sana medicina sono le erbe. Le ortiche purificano il sangue e
un sangue purificato favorisce la guarigione.
<<Ma
il dolore, almeno il dolore…>>
<< Ma per il dolore mi faccio le tisane
rilassanti e lentamente passa anche quello>>
Così comincia la lezione
sulle erbe: si dilunga, senza ostentazione come una normale conversazione, a
descrivere le proprietà, curative e lenitive, di quelle che sta usando per
combattere le infezioni e il dolore, l’uso che ne facevano gli antichissimi
saggi antenati (nostrani e internazionali) e quando torno a casa ho accumulato
una buona dose di sapere che non sapevo.
Mi piace Donata, non ha un
carattere facile ma è un’enciclopedia vivente. Mai domanda rivolta a lei resta
senza risposta. Io ne usufruisco rimanendone sempre soddisfatta.
Quando andai a trovarla la
prima volta, mi “presentò” le capre: Gelsomina, Caterina, Bianchina, e Lisetta,
l’asinella. Forse una mamma prova meno orgoglio verso i figli, nel mostrarli,
di quanto ne manifestava Donata a parlare delle sue creature. << Ringrazio
Dio per non avermi dato dei figli perché da loro avrei preteso ogni tipo di
conoscenza e difficilmente avrei sopportato un figlio che non si interessasse
di scoprire il cosmo, e tutto ciò che ruota intorno ad esso - abbassa la testa
e soprapensiero continua - ma anche la musica, la letteratura, la poesia … dire
in pochi versi ciò che uno scrittore dice in cento pagine >>. Dentro di
me le do ragione: “sì meglio che tu non abbia conosciuto questa fatica e questa
delusione”.
Alla domanda sul perché aveva
deciso di rompere con il mondo “civile” mi aveva risposto offesa: <<
Civile? La gentaglia che ha perso completamente la cognizione di terra, natura,
che la tradisce dimenticandola, la offende inquinandola, che la sta portando
alla morte tu la chiami civile? Io sono di questa terra, di questi animali e
dovevo scegliere se entrare a far parte incondizionatamente di questo sistema o
soffrire nella mischia tra individui arroganti e presuntuosi che pensano solo
alla vita mondana, convivono uno addosso all’altro, che si odiano, si invidiano
e competono a chi riesce per primo a comprare l’ultimo modello d’auto…>>.
<<Ma tu hai un marito importante, sei
cresciuta nei quartieri alti della città, con la servitù …>>
<<
Appunto! Non ne potevo più dei quartieri alti, della città e della
servitù.Credi che in campagna, lontana da tutti la mia vita sia inferiore? Ti
sbagli, vi sbagliate tutti>> aveva concluso con fierezza.
Poi aveva riflettuto e come
a cercare parole “povere” per spiegare cose difficili, aveva chiesto a bruciapelo:
<<Una principessa può fare la capraia?>>
<<Sì>> rispondo.
<< E una capraia può fare la
principessa?>>
<<No>>
<<Vedi che hai capito?>>
Mi era andata bene, avevo risposto ciò che si
aspettava, e per me non era poco. Con lei non volevo sfigurare e siccome era
impossibile agganciarmi alla sua mente erudita, pensai bene di ovviare a
inevitabili gaffes rivestendo il ruolo dell’allieva anziché quello della
presuntuosa che vuol competere. La cosa conciliava entrambe.
La cucina ha il tetto basso di mattoni con le volte.
Vi troneggia una cucina economica vecchio stile che Donata “imbocca” con pezzi
di legno anche in primavera, per averne in cambio calore, acqua calda per sé e
i suoi animali; la pentola affumicata che vi sta seduta sopra, è sempre pronta
per il pastone dei cani. L’atmosfera è intima, confortevole, “antica”.
Un mobile stile americano,
vecchio e palesemente recuperato, è colmo di libri, giornali e riviste che
parlano di essenze di erbe, fiori e radici, origini ed evoluzione di piante, loro
mantenimento, fioritura e moltiplicazione. Bellissime poesie e leggende da loro
ispirati, illustrazioni e descrizioni delle specie e varietà. Si tratta di
riviste specializzate. Costose ma senza pubblicità. Se poi è primavera, diventa
una scuola di floricoltura. Posso chiedere, non solo nomi di piante e fiori
comuni, ma anche quelli che tra rovi e sterpaglie si fanno largo: lei non fa
una piega.
Pavimento di vecchi mattoni,
consumati ma puliti. Alle pareti, grandi stampe più informative che decorative,
illustrano le varie specie di funghi, erbe selvatiche, fiori d’alta montagna
ecc.
A sinistra una vecchia madia
con dentro legna per la stufa, uno scaffale a muro con i piani di mattoni,
(vecchi anche questi) e sopra una serie di oggetti che non si vedono più in
nessun negozio: antichi vassoi in peltro dalle forme singolari o in legno
dipinto, tazze in porcellana bavarese, decorate come un tempo, un set di olio e
aceto in foggia bizzarra, ma non banale, scatole di legno o d’avorio, grossi
cesti-contenitori in vimini e altre ceste più piccole alle pareti.
Oggetti chiaramente
provenienti dai posti d’origine, dall’aria vissuta ma straniera, acquistati
durante i viaggi che Donata ha fatto con suo padre, quando i viaggi erano
un’evasione per pochissimi. Lei non faceva la turista ma l’osservatrice, quasi
come una studiosa. Conosce parecchie capitali d’Europa e sa parlare tre lingue.
Io scopro quel vecchio mondo
grazie a lei che lo preserva, difende, rispetta in modo sacrale. La cascina con
Donata, i suoi prati, i suoi animali e le sue piante, è “il” passato che
resiste.
Sul tavolo un piccolo
monumento: una piccola montagna di cera sciolta e rappresa, simile a un
vulcano, con al centro un cratere liquido e una fiammella lenta e fluttuante.
Poiché so quanto Donata ami le essenze, le candele devono essere di quelle,
oltre che profumate anche colorate. Dopo mesi, e forse anni, di cera sciolta
che si riversa su se stessa, strato su strato, ha rivestito i fianchi di questa
“montagnola” di gocce sovrapposte rendendole frastagliate e straordinariamente
colorate: sfumature dal rosso scuro al viola, al grigio, all’azzurro: (mille
volte avrei voluto chiedere il fenomeno, ma temendo di scoprire che si tratta
di una banalità non voglio fare la figura).
<< Non ti senti sola in tutto questo spazio,
con questo silenzio…Quanto lavoro!>>
<< Io sola? Mi fai ridere – e ride davvero -
Il silenzio, quale silenzio! Qua nemmeno la notte c’è silenzio! I miei animali
sono vivi e chi vive ha un proprio suono. In quanto al lavoro sappi che “ è lavorando
e avendo consuetudine col lavoro che si ama la vita e amando la vita,
attraverso la fatica, si fa parte del suo più profondo segreto”…Gibran>>.
Per me è come un coltello che gira nella piaga. Fisso il nome e dopo averla
salutata vado in biblioteca a cercare quell’autore. O lo trovo o lo compro
Questo accade anche per
artisti famosi e meno famosi, musicisti, pittori, poeti, letterati. Così appena
posso, me li vado a cercare, accontentandomi anche solo di un’infarinatura.
Se qualcuno pensasse che Donata
viva emarginata, chiarisco che, invece, partecipa intensamente all’evoluzione
del mondo e della sua storia e non dorme se i talebani distruggono i Buddha
incisi nella roccia, e piange per i bambini abbandonati nelle favelas
brasiliane, e mi telefona indignata per una donna che in Afghanistan rischia il
linciaggio; al contrario della maggior parte degli individui che guarda, passa
e va..
Con lei, si capisce, il mio
complesso non esiste.
L’influenza di persone che
sanno più di me l’ho subita fin dall’infanzia. Ed è grazie a loro che sono
“uscita dal seminato”. A volte penso cosa sarei se avessi continuato ad
ubbidire chi di me voleva fare una donna di casa, che solo nel tempo libero,
tra una stirata di panni e un lucidare le scarpe al marito, poteva permettersi
l’evasione dell’uncinetto e del ricamo. Io, ragazza del sud, so anche fare
questi lavori e mi soddisfano molto quando li eseguo, però ho invertito i
ruoli. La casa e i lavori domestici li faccio tra la lettura di un libro e la
contemplazione di un catalogo d’arte (se poi mi viene il pallino anche di
scrivere, l’opera si completa). In quanto alla spesa che certamente c’è chi non
manca di valutare, i miei libri sono tutti ricavati da regali e autoregali,
dagli shampoo fatti in casa che a volte nemmeno l’appuntamento con la
parrucchiera mi ferma dal “tradimento”. Devo scegliere: o sistemare la testa
fuori o riempirla dentro: nessuna esitazione, entro in libreria.
Esco giuliva e mi faccio i
complimenti. Naturalmente un libro nuovo deve essere sbirciato e…. la
biancheria da stirare aspetta.
Disordine a parte mi sento
realizzata.
La mia Y10 viaggia
sull’autostrada a velocità media. Vado con Marco a trovare mio fratello che non
vedo da un’eternità. Abita a molte decine di km e, tra lui e mio marito,
autentici stacanovisti, l’incontro si rimanda a volte per sei - otto mesi.
Si va per vedere il nuovo
arredamento che dopo le modifiche all’appartamento è stato rinnovato. <<
Chissà che roba!>> dice Marco, chiaramente riferito al lusso che mio
fratello fa da quando ha sposato Cristiana. <<Sei invidioso?>>
Scherzo. Ma non posso dargli torto.
Parcheggiando fuori dal recinto che
circonda il residence, penso che se mio fratello vedesse che siamo arrivati con
la mia vecchiaY10, si vergognerebbe. Lui l’ultima volta è venuto da noi con
l’Audi nuova della moglie e la penultima volta col suo fuoristrada fiammante e
superaccessoriato.
Cerchiamo il nome nelle tre
lunghe file del citofono e aspettiamo.
<<Chi è?>>
<<Siamo noi>>
<< Ah sì. Quarto>> Sanno che
dimentichiamo sempre il piano.
Si apre il cancello e
scendiamo una scala che dà su uno scenario niente male: un giardino inglese
impeccabile con alberi senza una fronda più lunga o più corta, ben dimorati in
simmetria perfetta. Non una sola foglia secca sul tappeto (giuro che è vero),
non un ciuffo d’erba più alto o più basso; tutto è di una tale uniformità da
farmi dire: <<Che dici, sarà naturale tutto questo, o sintetico?>>
Ora c’è la porta del condominio da far
aprire, ma non ricordiamo la scala. Allora Marco va alla A e io alla B. E’ alla
C. Dopo la seconda porta bisogna far aprire la terza; quella dell’ascensore che
ha lo spioncino rosso; aspettiamo che diventi verde. Ancora un pulsante, quello
del quarto piano e via.
La porta d’ingresso è socchiusa e notiamo
subito che non è uguale alle altre del pianerottolo. E’ nuova con una targa in
ottone (ma potrebbe essere oro) ovale, con inciso il nome di mio fratello in
corsivo, che brilla a tutto tondo. << Caspita, è diventato
notaio?>>- ironizza Marco.
(Spiritoso!)
Ci vengono incontro
affettuosamente (tra noi l’affetto non è mai mancato) e dopo i saluti, io e mio
marito, restiamo annichiliti. Dal soffitto al pavimento è una novità unica: la
tappezzeria di stoffa è stata sostituita con una meno bella della precedente ma
di seta (proprio così); il soffitto è incorniciato da stucchi ripresi da una
bordura che richiama le pareti; i pavimenti in marmo nero con striature
grigio-bianchi, sono protetti da tappeti mai calpestati (tanto sono
sfacciatamente puliti).
Una consolle finto d’epoca
con intarsi madreperlacei sul verdino con sopra uno specchio incorniciato da
fregi dorato antichizzato e su un lato un altro mobile (pregiato per carità) a
vetrina con un’esposizione infinita di oggetti dorati, argentati, “swaroskizzati”
che dai piccoli raggi che si mandano a vicenda mi fanno venire in mente il
palco in miniatura di una rockstar.
Decine di piatti alle
pareti, in porcellana finissima, decorati lussuosamente e uno specchio di
Murano con ornamenti di rose e foglie in rilievo, sfumate dal rosa al verde. Un
enorme vaso blu con disegni in oro zecchino (spiega Cristiana. Potevo dubitare
?), con dentro una magnifica pianta che non poteva essere che finta, anzi,
sempre lei, con il tono orgoglioso di chi precisa l’autenticità di un oggetto a
chi lo mette in dubbio, chiarisce: “è liofilizzata”. L’orgoglio di far sapere
che fresca è banale e se la può permettere chiunque; liofilizzata no. Non ha
torto! La immaginate una pianta vera quando comincia a seccare? Sarebbe una deturpazione.
Poiché incalza il soggiorno, tante altre cose li devo sorvolare
Anche qua….Tappezzeria Armani (rileva mia cognata), e soffitto ancora più incorniciato del primo; mantovana drappeggiata di velluto rosso mattone e tende in pizzo: <<Quelle che avevi? >> chiedo << No!Quelle si sono rotte in più parti. Sai, lavandoli tutti i mesi! >>… Tutti i mesi? Ma le tende non si lavano ogni sei mesi? Io ad esempio li lavo una volta l’anno, a primavera.
Salotto in seta cinese mai
usato; infatti non ha mai goduto del suo ruolo perché Cristiana lo protegge,
oltre che da se stessa anche da qualsiasi ospite (anche illustre) e pur essendo
l’unico superstite del vecchio arredo, non sfigura neanche un po’con il nuovo.
Un mobile imitazione in
stile barocco, un tappeto in misto seta che manda tonalità diverse se visto da
angolazioni opposte e, sul tavolino interamente intarsiato, grandi portafoto in
argento con primi piani di mia cognata in abbigliamenti da grandi occasioni:
quattro foto e quattro tinte di capelli diverse che potrebbero fare la
cronistoria delle moda e di come gusti, fogge e colori cambiano. Ancora un
mobile veneziano a vetrina e dentro una inimmaginabile serie di servizi da
caffè, the, frutta, gelato, macedonia, sovrastati da scintillanti cristallerie.
Un numero, impossibile da verificare, di quadri con figure sacre e non,
d’argento in bassorilievo; poi, finalmente qualche dipinto che, per non farlo
passare inosservato tra gli altri più appariscenti, è stato arricchito da un
cordone per appenderlo e da pon-pon
nelle estremità laterali. Un imponente orologio a colonna e, vicino, un
enorme vassoio su un tavolino regge
altrettanti enormi brocche in argento, tutti lavorati a ghirigori. Anche nei
manici.
Faccio per dare un’occhiata al balcone e
Cristiana spinge un pulsante: la serranda va su, un ulteriore pulsante, e le
tende si aprono. Meraviglia delle meraviglie!
Andiamo in cucina (se si può
chiamare cucina!). Marco ed io siamo confusi dalla massiccia dose di novità
strabilianti e non è finita. Nel frattempo il clima si è fatto euforico per
l’incrociarsi delle quattro voci, in un susseguirsi di complimenti, domande
(mai indiscrete) e risposte alle quali crediamo senza riserve. Ora tento un
riassunto, ma solo un riassunto, di questo locale: tre lati della stanza,
rivestite dal soffitto al pavimento, in mobili (manco a dirlo fatti a mano) di
noce massello dal di fuori e (ci tiene a chiarire Cristiana) anche dal di
dentro. Un piano di marmo grigioverde inciso e sagomato nei lavandini, in una linea
principesca, fanno da base ai fuochi (misti: elettrici e a gas) realizzati a
raggiera accanto ad un pulsante per far scendere la cappa che altrimenti resta
invisibile dentro al maestoso pensile, mentre un altro pulsante è per le luci
orientabili. Un altro pulsante è per accendere i fuochi, uno per il forno, uno
per la ventola e ancora, uno per far uscire il ghiaccio, uno per l’acqua
naturale e uno per quella gasata. ( Non ci credete? Venite, vi porto)
Tavolo di legno massiccio e
cristallo, sedie con spalliere intarsiate, cuscini in broccato beige e verdino,
tovaglia ricamata, stoviglie (tutte) in tinta col pavimento e il marmo della
cucina.
Divano in pelle verde
accanto ad un mobile indefinibile che fa da credenza, portativù, portadivudì,
portatelefono e portaoggetti progettato da “ me e Ugo” , informa Cristiana. I
suoi occhi brillano e a me viene il sospetto che la felicità stia in tutto ciò
che vedo.
Il pranzo, nonostante sia squisito,
diviene un sacrificio, allora tento una conversazione basata sui programmi tv
per non metterli in imbarazzo: scoperto che i loro programmi non combaciano con
i miei rinuncio.
Cerco una via di scampo: << Vado
in bagno>> Cristiana si precipita e mi costringe ad andare in quello
importante. Apro e resto immobile: vedo l’apoteosi.
La vasca idromassaggio
(poteva essere altrimenti?) ha pulsanti “ionizzanti” e ultrasuoni; ne ha per
l’acqua calda, fredda, sapone, luci, ventola per il vapore. Mobili veneziani,
(ben due nonostante lo spazio ristretto), con dentro una vasta esposizione di
quanto possa servire per una toilette regale (mentre tanti altri con la
toilette non c’entrano per niente) e, ci vedo o non ci vedo? tappetini bianchi
in pelliccia, o lana d’angora? dal pelo così lungo e così soffice da farmi
immaginare immediatamente cosa accadrebbe se una persona uscendo dalla vasca,
mettesse davvero i piedi grondanti d’acqua su quel pelo ( ma conoscendo
Cristiana questo rischio non esiste). Il lavabo a tavolino ha rubinetti in
radica bordati di ottone ( ma potrebbe essere oro) e tutti gli accessori dello
stesso materiale e dello stesso stile (non saprei quale).
Poiché andare in bagno non
era solo una scusa, e indegna di usare quel paradiso per atti tanto meschini,
all’insaputa di tutti, mi dirigo nel doppio servizio dove finalmente posso
lasciarmi andare. Doppio servizio per comuni mortali direte voi! No! E’ un
doppio servizio con poco meno requisiti del primo.
Dopo, nella speranza di
riuscire a trovare qualcosa di cui sento la necessità, entro nella camera dei
bambini e tra mobili (sempre veneziani) e oggetti all’altezza di tutto il
resto, cerco la collana di volumi illustrati che avevo regalato. Nemmeno
l’ombra, non solo dei miei volumi, ma neanche di un libro (di scuola)
qualsiasi. Chiedo, e mia cognata risponde: << Non vedi che non so più
dove mettere la roba? Li ho sistemati nello sgabuzzino>>. Poi, per
venirmi incontro e dare sollievo alla mia angoscia dice: <<Vieni, ti
faccio vedere il regalo che mi ha fatto Ugo per il compleanno>>.
Per una pietà verso chi deve
leggere, evito di descrivere la camera e tutti i gioielli contenuti nel
cassettone, dicendo solo che mia cognata li ama morbosamente e festeggia
compleanni, onomastici, anniversari, Natale, Pasqua e Patrono del paese sempre
con un gioiello.
Intanto l’intesa tra noi si
è trasformata in complicità e Cristiana mi confida un cruccio che le sta
togliendo il sonno.
<< Deve arrivare mia madrina con suo marito da Follonica, non è
mai venuta e si ferma per qualche giorno: non so come fare per ospitarli. Anche
se volessi mettere due reti, mi manca lo spazio e poi, che figura ci faccio?
Pensi che si offenderanno se prenoto un albergo ?>>
Quella
confessione mi riporta bruscamente alla realtà e provo una punta di delusione
nello scoprire che anche lei vive, nonostante tutto, alle prese con miseri travagli quotidiani.
Sulla via
del ritorno Marco ed io siamo esausti.
In silenzio
ferma l’auto sul ciglio della strada e scendiamo. Non occorre nessuna parola.
Respiriamo a gola piena e stendiamo lo sguardo sul fiume, la collina, le poche
case con il piccolo campanile, mentre assorta riordino le immagini che mi
girano davanti agli occhi, ricorrendo, per riuscirci meglio, al vecchio detto “
non è sempre oro…”. Poi la voce serena
di Marco spezza l’incanto.
<< Hai visto che pulizia? Altro che la nostra
casa! A proposito volevo dirti che prima di uscire ho visto una
ragnatela>>
Grata per
non aver fatto il giro di tutta la casa, altrimenti ne avrebbe viste di più,
rispondo a voce bassa:
<< Anch’io l’ho vista, appena arrivo la tolgo>>.
Il sollievo
del momento non è sufficiente a sbarrare il passo al mio complesso che, simile
ad una nube tossica, inesorabile mi investe.
In
confronto a mia cognata mi sento, e sono, davvero un fallimento. Perché
negarlo?