Il COMPLESSO

di Beatrice Vacirca Arena

 

                                                                                                                                                 

PREMESSA

 

Soffro del complesso (d’inferiorità naturalmente) della casalinga “scadente”: stento, da quando ho sposato Marco, a tenere la casa ordinata e pulita in ogni angolo.

Chi mi vuol bene sinceramente mi viene incontro giustificandomi: << La tua casa è troppo grande, e poi i bambini, gli affari che sbrighi per tuo marito….impossibile tenerla tutta a posto.  Sarebbe impossibile per chiunque! >> Che cari, penso.

Chi, invece, mi detesta afferma che sono pigra, che della casa non m’importa niente, che ho altro per la testa (come fanno a saperlo?) e che tutto è dovuto al fatto che non ho avuto una mamma che me lo abbia insegnato. E qui, come si suol dire, casca l’asino.

         La verità, che non tutti possono sapere, è che da signorina ero perfezionista della pulizia, perché altrimenti, mi dicevano, non avrei trovato marito; ma una volta trovato, forse inconsciamente, ho capito che l’unico, il massimo traguardo prefissato l’avevo raggiunto e dunque perché sbracciarsi? Tanto né l’ordine né il disordine avrebbero potuto migliorare o peggiorare la mia vita e la mia situazione: analisi approssimativa ma sufficientemente ipotizzabile.

Marco, dal canto suo credeva di aver sposato una ragazza “casalinga” a tempo pieno. Scoperto che si sbagliava, e anche di grosso, non vi dico la delusione. Se fossi una casalinga “vera”, sarei perfetta, dice Marco. Però so bene che il mio “difetto” è così palese da diventare facile e gratuito per chiunque, con l’indubbio vantaggio, a mio favore, di coprire magnificamente tutti gli altri.

         Dato che ognuno di noi deve essere dotato di almeno un difetto, dovrebbe tranquillizzarmi il fatto di rientrare nei canoni.

Invece no: mi basta andare da chi è maniaca della pulizia o venga a trovarmi chi appartiene alla categoria, per sentirmi sprofondare come un’indegna usurpatrice della condizione umana.

Ma ho sperimentato quanto un complesso possa variare di intensità, secondo l’individuo con cui si ha a che fare. Insomma un surrogato di alibi. Giudicate pure. Io non mi offendo.

                         

DONATA

 

A bordo della mia Y10 lascio la strada comunale asfaltata e imbocco quella sterrata che in circa un chilometro e mezzo di percorso tutto in discesa, porta alla cascina Rosina.

La macchina sobbalza nelle buche, gli alberi, ai lati della strada, si incrociano formando un arco e mi vengono incontro con i rami bassi, come un tentativo per fermarmi, ma poi battono sul parabrezza, strisciano sul tettuccio e mi lasciano campo libero.

La strada, inutile dirlo, è una galleria di ombre, silenzi, colori, profumi.

Il cancelletto di steccato rudimentale, regge, su un lato, una sbiadita bandiera italiana che sventola vecchia e stanca: non c’è campanello. Il compito è stato affidato ai cani che rabbiosi mi vengono incontro: neri, lucenti, insomma in buona salute.

Entro nel cortile raggirando una grande aiuola che fa da spartitraffico. Non occorre farmi annunciare dal clacson, lei sa che arrivo e poi i cani lo hanno urlato ai quattro venti e fatto sapere a tutto il circondario.

Sulla soglia lei: Donata. È come l’immagine evocata da un documentario d’epoca, di quelli in via di irreparabile estinzione, ma in perfetta armonia con il luogo che la incornicia.

All’infuori dei tetti, infatti, nella cascina nulla è mutato dall’epoca della costruzione e dunque a una persona “moderna” risulta tutto fatiscente, ma per Donata sarebbe un sacrilegio spostare, rinnovare, modificare.

Dopo l’accoglienza dei cani, ricevo quella di galline, gatti, papere e oche che spadroneggiano liberi nel cortile, sicuri che moriranno di vecchiaia (Donata non li vende e non li mangia). Più lontano ci sono i conigli e, nella stalla accanto alla casa, ci sono le capre. Nel grande prato, dentro a un recinto fatto di nastro colorato, tre cavalli davanti alla loro stalla tutta in legno, da essere scambiata, da lontano, per un piccolo chalet. Dietro la casa, un altro recinto con un’asinella e, sul terreno accanto, le vasche dell’humus. In lontananza, accanto ad un trattore, l’uomo tuttofare intento ad “aprire” il fieno con un rastrello per farlo asciugare. Poi un grande fienile, un montacarichi e, al piano terreno, un rifugio attrezzi, concimi di letame essiccato, granaglie, grossi sacchi di mais, e tutto ciò che serve a un’azienda agricola.

Ma questa non è un’azienda agricola.

Come al solito Donata è vestita in modo spartano, assomiglia più a una contadina povera che alla moglie dell’ingegnere, dirigente di un’importante multinazionale.

Indossa una vecchia tuta, un vecchio maglione e un paio di zoccoli. Credo che non compri un indumento da quando è venuta a vivere nella cascina, “fuori dal mondo”, come dicono in paese, e cioè da quindici anni. In mano, l’immancabile sigaretta. I capelli, che non sanno neanche che esistono le tinture, convivono, neri e bianchi, tirati all’indietro in una treccia che scende fino alla vita. << Ciao cara>> dice sorridendo con quella sua voce inimitabile, sinuosa, aristocratica, ma non sofisticata, che non supera i decibel di sopportazione dei timpani neanche quando urla. E’ una voce, come si dice oggi, “interiore”.

<< Ciao. Con questo caldo porti i calzettoni?>>

<<Ma si. Mi sono versata addosso il pastone bollente dei cani ed ho la gamba tutta una piaga>>

<<Cribbio! E il medico? >>

<< Sììì!!  Il medico avrebbe voluto ricoverarmi ai grandi ustionati, ma a chi lascio le mie creature? Mi ha dato una pomata, li ho bendate e poi prendo decotti di ortiche >>

<<Ortiche?>>

<<Si ortiche. Non conosci il potere delle ortiche? Fanno miracoli. Fuori possono, i medici, darmi degli intrugli, ma dentro, la vera e sana medicina sono le erbe. Le ortiche purificano il sangue e un sangue purificato favorisce la guarigione.

 <<Ma il dolore, almeno il dolore…>>

<< Ma per il dolore mi faccio le tisane rilassanti e lentamente passa anche quello>>

 

Così comincia la lezione sulle erbe: si dilunga, senza ostentazione come una normale conversazione, a descrivere le proprietà, curative e lenitive, di quelle che sta usando per combattere le infezioni e il dolore, l’uso che ne facevano gli antichissimi saggi antenati (nostrani e internazionali) e quando torno a casa ho accumulato una buona dose di sapere che non sapevo.

Mi piace Donata, non ha un carattere facile ma è un’enciclopedia vivente. Mai domanda rivolta a lei resta senza risposta. Io ne usufruisco rimanendone sempre soddisfatta.

Quando andai a trovarla la prima volta, mi “presentò” le capre: Gelsomina, Caterina, Bianchina, e Lisetta, l’asinella. Forse una mamma prova meno orgoglio verso i figli, nel mostrarli, di quanto ne manifestava Donata a parlare delle sue creature. << Ringrazio Dio per non avermi dato dei figli perché da loro avrei preteso ogni tipo di conoscenza e difficilmente avrei sopportato un figlio che non si interessasse di scoprire il cosmo, e tutto ciò che ruota intorno ad esso - abbassa la testa e soprapensiero continua - ma anche la musica, la letteratura, la poesia … dire in pochi versi ciò che uno scrittore dice in cento pagine >>. Dentro di me le do ragione: “sì meglio che tu non abbia conosciuto questa fatica e questa delusione”.

Alla domanda sul perché aveva deciso di rompere con il mondo “civile” mi aveva risposto offesa: << Civile? La gentaglia che ha perso completamente la cognizione di terra, natura, che la tradisce dimenticandola, la offende inquinandola, che la sta portando alla morte tu la chiami civile? Io sono di questa terra, di questi animali e dovevo scegliere se entrare a far parte incondizionatamente di questo sistema o soffrire nella mischia tra individui arroganti e presuntuosi che pensano solo alla vita mondana, convivono uno addosso all’altro, che si odiano, si invidiano e competono a chi riesce per primo a comprare l’ultimo modello d’auto…>>.

<<Ma tu hai un marito importante, sei cresciuta nei quartieri alti della città, con la servitù …>>

<< Appunto! Non ne potevo più dei quartieri alti, della città e della servitù.Credi che in campagna, lontana da tutti la mia vita sia inferiore? Ti sbagli, vi sbagliate tutti>> aveva concluso con fierezza.

Poi aveva riflettuto e come a cercare parole “povere” per spiegare cose difficili, aveva chiesto a bruciapelo: <<Una principessa può fare la capraia?>>

<<Sì>> rispondo.

<< E una capraia può fare la principessa?>>   

<<No>>  

<<Vedi che hai capito?>>

Mi era andata bene, avevo risposto ciò che si aspettava, e per me non era poco. Con lei non volevo sfigurare e siccome era impossibile agganciarmi alla sua mente erudita, pensai bene di ovviare a inevitabili gaffes rivestendo il ruolo dell’allieva anziché quello della presuntuosa che vuol competere. La cosa conciliava entrambe.

 

La cucina ha il tetto basso di mattoni con le volte. Vi troneggia una cucina economica vecchio stile che Donata “imbocca” con pezzi di legno anche in primavera, per averne in cambio calore, acqua calda per sé e i suoi animali; la pentola affumicata che vi sta seduta sopra, è sempre pronta per il pastone dei cani. L’atmosfera è intima, confortevole, “antica”.

Un mobile stile americano, vecchio e palesemente recuperato, è colmo di libri, giornali e riviste che parlano di essenze di erbe, fiori e radici, origini ed evoluzione di piante, loro mantenimento, fioritura e moltiplicazione. Bellissime poesie e leggende da loro ispirati, illustrazioni e descrizioni delle specie e varietà. Si tratta di riviste specializzate. Costose ma senza pubblicità. Se poi è primavera, diventa una scuola di floricoltura. Posso chiedere, non solo nomi di piante e fiori comuni, ma anche quelli che tra rovi e sterpaglie si fanno largo: lei non fa una piega.

Pavimento di vecchi mattoni, consumati ma puliti. Alle pareti, grandi stampe più informative che decorative, illustrano le varie specie di funghi, erbe selvatiche, fiori d’alta montagna ecc.

A sinistra una vecchia madia con dentro legna per la stufa, uno scaffale a muro con i piani di mattoni, (vecchi anche questi) e sopra una serie di oggetti che non si vedono più in nessun negozio: antichi vassoi in peltro dalle forme singolari o in legno dipinto, tazze in porcellana bavarese, decorate come un tempo, un set di olio e aceto in foggia bizzarra, ma non banale, scatole di legno o d’avorio, grossi cesti-contenitori in vimini e altre ceste più piccole alle pareti.

Oggetti chiaramente provenienti dai posti d’origine, dall’aria vissuta ma straniera, acquistati durante i viaggi che Donata ha fatto con suo padre, quando i viaggi erano un’evasione per pochissimi. Lei non faceva la turista ma l’osservatrice, quasi come una studiosa. Conosce parecchie capitali d’Europa e sa parlare tre lingue.

Io scopro quel vecchio mondo grazie a lei che lo preserva, difende, rispetta in modo sacrale. La cascina con Donata, i suoi prati, i suoi animali e le sue piante, è “il” passato che resiste.

Sul tavolo un piccolo monumento: una piccola montagna di cera sciolta e rappresa, simile a un vulcano, con al centro un cratere liquido e una fiammella lenta e fluttuante. Poiché so quanto Donata ami le essenze, le candele devono essere di quelle, oltre che profumate anche colorate. Dopo mesi, e forse anni, di cera sciolta che si riversa su se stessa, strato su strato, ha rivestito i fianchi di questa “montagnola” di gocce sovrapposte rendendole frastagliate e straordinariamente colorate: sfumature dal rosso scuro al viola, al grigio, all’azzurro: (mille volte avrei voluto chiedere il fenomeno, ma temendo di scoprire che si tratta di una banalità non voglio fare la figura).

 

<< Non ti senti sola in tutto questo spazio, con questo silenzio…Quanto lavoro!>>

<< Io sola? Mi fai ridere – e ride davvero - Il silenzio, quale silenzio! Qua nemmeno la notte c’è silenzio! I miei animali sono vivi e chi vive ha un proprio suono. In quanto al lavoro sappi che “ è lavorando e avendo consuetudine col lavoro che si ama la vita e amando la vita, attraverso la fatica, si fa parte del suo più profondo segreto”…Gibran>>. Per me è come un coltello che gira nella piaga. Fisso il nome e dopo averla salutata vado in biblioteca a cercare quell’autore. O lo trovo o lo compro

Questo accade anche per artisti famosi e meno famosi, musicisti, pittori, poeti, letterati. Così appena posso, me li vado a cercare, accontentandomi anche solo di un’infarinatura.

Se qualcuno pensasse che Donata viva emarginata, chiarisco che, invece, partecipa intensamente all’evoluzione del mondo e della sua storia e non dorme se i talebani distruggono i Buddha incisi nella roccia, e piange per i bambini abbandonati nelle favelas brasiliane, e mi telefona indignata per una donna che in Afghanistan rischia il linciaggio; al contrario della maggior parte degli individui che guarda, passa e va..

Con lei, si capisce, il mio complesso non esiste.

    

L’influenza di persone che sanno più di me l’ho subita fin dall’infanzia. Ed è grazie a loro che sono “uscita dal seminato”. A volte penso cosa sarei se avessi continuato ad ubbidire chi di me voleva fare una donna di casa, che solo nel tempo libero, tra una stirata di panni e un lucidare le scarpe al marito, poteva permettersi l’evasione dell’uncinetto e del ricamo. Io, ragazza del sud, so anche fare questi lavori e mi soddisfano molto quando li eseguo, però ho invertito i ruoli. La casa e i lavori domestici li faccio tra la lettura di un libro e la contemplazione di un catalogo d’arte (se poi mi viene il pallino anche di scrivere, l’opera si completa). In quanto alla spesa che certamente c’è chi non manca di valutare, i miei libri sono tutti ricavati da regali e autoregali, dagli shampoo fatti in casa che a volte nemmeno l’appuntamento con la parrucchiera mi ferma dal “tradimento”. Devo scegliere: o sistemare la testa fuori o riempirla dentro: nessuna esitazione, entro in libreria.

Esco giuliva e mi faccio i complimenti. Naturalmente un libro nuovo deve essere sbirciato e…. la biancheria da stirare aspetta.

Disordine a parte mi sento realizzata.

 

CRISTIANA

  

La mia Y10 viaggia sull’autostrada a velocità media. Vado con Marco a trovare mio fratello che non vedo da un’eternità. Abita a molte decine di km e, tra lui e mio marito, autentici stacanovisti, l’incontro si rimanda a volte per sei - otto mesi.

Si va per vedere il nuovo arredamento che dopo le modifiche all’appartamento è stato rinnovato. << Chissà che roba!>> dice Marco, chiaramente riferito al lusso che mio fratello fa da quando ha sposato Cristiana. <<Sei invidioso?>> Scherzo. Ma non posso dargli torto.

         Parcheggiando fuori dal recinto che circonda il residence, penso che se mio fratello vedesse che siamo arrivati con la mia vecchiaY10, si vergognerebbe. Lui l’ultima volta è venuto da noi con l’Audi nuova della moglie e la penultima volta col suo fuoristrada fiammante e superaccessoriato.

Cerchiamo il nome nelle tre lunghe file del citofono e aspettiamo.

<<Chi è?>>

<<Siamo noi>>

<< Ah sì. Quarto>> Sanno che dimentichiamo sempre il piano.

Si apre il cancello e scendiamo una scala che dà su uno scenario niente male: un giardino inglese impeccabile con alberi senza una fronda più lunga o più corta, ben dimorati in simmetria perfetta. Non una sola foglia secca sul tappeto (giuro che è vero), non un ciuffo d’erba più alto o più basso; tutto è di una tale uniformità da farmi dire: <<Che dici, sarà naturale tutto questo, o sintetico?>>

         Ora c’è la porta del condominio da far aprire, ma non ricordiamo la scala. Allora Marco va alla A e io alla B. E’ alla C. Dopo la seconda porta bisogna far aprire la terza; quella dell’ascensore che ha lo spioncino rosso; aspettiamo che diventi verde. Ancora un pulsante, quello del quarto piano e via.

         La porta d’ingresso è socchiusa e notiamo subito che non è uguale alle altre del pianerottolo. E’ nuova con una targa in ottone (ma potrebbe essere oro) ovale, con inciso il nome di mio fratello in corsivo, che brilla a tutto tondo. << Caspita, è diventato notaio?>>- ironizza Marco.  (Spiritoso!)

Ci vengono incontro affettuosamente (tra noi l’affetto non è mai mancato) e dopo i saluti, io e mio marito, restiamo annichiliti. Dal soffitto al pavimento è una novità unica: la tappezzeria di stoffa è stata sostituita con una meno bella della precedente ma di seta (proprio così); il soffitto è incorniciato da stucchi ripresi da una bordura che richiama le pareti; i pavimenti in marmo nero con striature grigio-bianchi, sono protetti da tappeti mai calpestati (tanto sono sfacciatamente puliti).

Una consolle finto d’epoca con intarsi madreperlacei sul verdino con sopra uno specchio incorniciato da fregi dorato antichizzato e su un lato un altro mobile (pregiato per carità) a vetrina con un’esposizione infinita di oggetti dorati, argentati, “swaroskizzati” che dai piccoli raggi che si mandano a vicenda mi fanno venire in mente il palco in miniatura di una rockstar.

Decine di piatti alle pareti, in porcellana finissima, decorati lussuosamente e uno specchio di Murano con ornamenti di rose e foglie in rilievo, sfumate dal rosa al verde. Un enorme vaso blu con disegni in oro zecchino (spiega Cristiana. Potevo dubitare ?), con dentro una magnifica pianta che non poteva essere che finta, anzi, sempre lei, con il tono orgoglioso di chi precisa l’autenticità di un oggetto a chi lo mette in dubbio, chiarisce: “è liofilizzata”. L’orgoglio di far sapere che fresca è banale e se la può permettere chiunque; liofilizzata no. Non ha torto! La immaginate una pianta vera quando comincia a seccare? Sarebbe una deturpazione.

        Poiché incalza il soggiorno, tante altre cose li devo sorvolare

       Anche qua….Tappezzeria Armani (rileva mia cognata), e soffitto ancora più incorniciato del primo; mantovana drappeggiata di velluto rosso mattone e tende in pizzo: <<Quelle che avevi? >> chiedo << No!Quelle si sono rotte in più parti. Sai, lavandoli tutti i mesi! >>… Tutti i mesi? Ma le tende non si lavano ogni sei mesi? Io ad esempio li lavo una volta l’anno, a primavera.

Salotto in seta cinese mai usato; infatti non ha mai goduto del suo ruolo perché Cristiana lo protegge, oltre che da se stessa anche da qualsiasi ospite (anche illustre) e pur essendo l’unico superstite del vecchio arredo, non sfigura neanche un po’con il nuovo.

Un mobile imitazione in stile barocco, un tappeto in misto seta che manda tonalità diverse se visto da angolazioni opposte e, sul tavolino interamente intarsiato, grandi portafoto in argento con primi piani di mia cognata in abbigliamenti da grandi occasioni: quattro foto e quattro tinte di capelli diverse che potrebbero fare la cronistoria delle moda e di come gusti, fogge e colori cambiano. Ancora un mobile veneziano a vetrina e dentro una inimmaginabile serie di servizi da caffè, the, frutta, gelato, macedonia, sovrastati da scintillanti cristallerie. Un numero, impossibile da verificare, di quadri con figure sacre e non, d’argento in bassorilievo; poi, finalmente qualche dipinto che, per non farlo passare inosservato tra gli altri più appariscenti, è stato arricchito da un cordone per appenderlo e da pon-pon  nelle estremità laterali. Un imponente orologio a colonna e, vicino, un enorme  vassoio su un tavolino regge altrettanti enormi brocche in argento, tutti lavorati a ghirigori. Anche nei manici.

         Faccio per dare un’occhiata al balcone e Cristiana spinge un pulsante: la serranda va su, un ulteriore pulsante, e le tende si aprono. Meraviglia delle meraviglie!

Andiamo in cucina (se si può chiamare cucina!). Marco ed io siamo confusi dalla massiccia dose di novità strabilianti e non è finita. Nel frattempo il clima si è fatto euforico per l’incrociarsi delle quattro voci, in un susseguirsi di complimenti, domande (mai indiscrete) e risposte alle quali crediamo senza riserve. Ora tento un riassunto, ma solo un riassunto, di questo locale: tre lati della stanza, rivestite dal soffitto al pavimento, in mobili (manco a dirlo fatti a mano) di noce massello dal di fuori e (ci tiene a chiarire Cristiana) anche dal di dentro. Un piano di marmo grigioverde inciso e sagomato nei lavandini, in una linea principesca, fanno da base ai fuochi (misti: elettrici e a gas) realizzati a raggiera accanto ad un pulsante per far scendere la cappa che altrimenti resta invisibile dentro al maestoso pensile, mentre un altro pulsante è per le luci orientabili. Un altro pulsante è per accendere i fuochi, uno per il forno, uno per la ventola e ancora, uno per far uscire il ghiaccio, uno per l’acqua naturale e uno per quella gasata. ( Non ci credete? Venite, vi porto)

Tavolo di legno massiccio e cristallo, sedie con spalliere intarsiate, cuscini in broccato beige e verdino, tovaglia ricamata, stoviglie (tutte) in tinta col pavimento e il marmo della cucina.

Divano in pelle verde accanto ad un mobile indefinibile che fa da credenza, portativù, portadivudì, portatelefono e portaoggetti progettato da “ me e Ugo” , informa Cristiana. I suoi occhi brillano e a me viene il sospetto che la felicità stia in tutto ciò che vedo. 

         Il pranzo, nonostante sia squisito, diviene un sacrificio, allora tento una conversazione basata sui programmi tv per non metterli in imbarazzo: scoperto che i loro programmi non combaciano con i miei rinuncio.

         Cerco una via di scampo: << Vado in bagno>> Cristiana si precipita e mi costringe ad andare in quello importante. Apro e resto immobile: vedo l’apoteosi. 

La vasca idromassaggio (poteva essere altrimenti?) ha pulsanti “ionizzanti” e ultrasuoni; ne ha per l’acqua calda, fredda, sapone, luci, ventola per il vapore. Mobili veneziani, (ben due nonostante lo spazio ristretto), con dentro una vasta esposizione di quanto possa servire per una toilette regale (mentre tanti altri con la toilette non c’entrano per niente) e, ci vedo o non ci vedo? tappetini bianchi in pelliccia, o lana d’angora? dal pelo così lungo e così soffice da farmi immaginare immediatamente cosa accadrebbe se una persona uscendo dalla vasca, mettesse davvero i piedi grondanti d’acqua su quel pelo ( ma conoscendo Cristiana questo rischio non esiste). Il lavabo a tavolino ha rubinetti in radica bordati di ottone ( ma potrebbe essere oro) e tutti gli accessori dello stesso materiale e dello stesso stile (non saprei quale).

Poiché andare in bagno non era solo una scusa, e indegna di usare quel paradiso per atti tanto meschini, all’insaputa di tutti, mi dirigo nel doppio servizio dove finalmente posso lasciarmi andare. Doppio servizio per comuni mortali direte voi! No! E’ un doppio servizio con poco meno requisiti del primo.

Dopo, nella speranza di riuscire a trovare qualcosa di cui sento la necessità, entro nella camera dei bambini e tra mobili (sempre veneziani) e oggetti all’altezza di tutto il resto, cerco la collana di volumi illustrati che avevo regalato. Nemmeno l’ombra, non solo dei miei volumi, ma neanche di un libro (di scuola) qualsiasi. Chiedo, e mia cognata risponde: << Non vedi che non so più dove mettere la roba? Li ho sistemati nello sgabuzzino>>. Poi, per venirmi incontro e dare sollievo alla mia angoscia dice: <<Vieni, ti faccio vedere il regalo che mi ha fatto Ugo per il compleanno>>.

Per una pietà verso chi deve leggere, evito di descrivere la camera e tutti i gioielli contenuti nel cassettone, dicendo solo che mia cognata li ama morbosamente e festeggia compleanni, onomastici, anniversari, Natale, Pasqua e Patrono del paese sempre con un gioiello.

 

Intanto l’intesa tra noi si è trasformata in complicità e Cristiana mi confida un cruccio che le sta togliendo il sonno.

      << Deve arrivare mia madrina con suo marito da Follonica, non è mai venuta e si ferma per qualche giorno: non so come fare per ospitarli. Anche se volessi mettere due reti, mi manca lo spazio e poi, che figura ci faccio? Pensi che si offenderanno se prenoto un albergo ?>>

  Quella confessione mi riporta bruscamente alla realtà e provo una punta di delusione nello scoprire che anche lei vive, nonostante tutto, alle prese con  miseri travagli quotidiani.

  Sulla via del ritorno Marco ed io siamo esausti.

  In silenzio ferma l’auto sul ciglio della strada e scendiamo. Non occorre nessuna parola. Respiriamo a gola piena e stendiamo lo sguardo sul fiume, la collina, le poche case con il piccolo campanile, mentre assorta riordino le immagini che mi girano davanti agli occhi, ricorrendo, per riuscirci meglio, al vecchio detto “ non è sempre oro…”. Poi  la voce serena di Marco spezza l’incanto.

<< Hai visto che pulizia? Altro che la nostra casa! A proposito volevo dirti che prima di uscire ho visto una ragnatela>>

 Grata per non aver fatto il giro di tutta la casa, altrimenti ne avrebbe viste di più, rispondo a voce bassa:

<< Anch’io l’ho vista, appena arrivo la tolgo>>. 

 Il sollievo del momento non è sufficiente a sbarrare il passo al mio complesso che, simile ad una nube tossica, inesorabile mi investe.

   In confronto a mia cognata mi sento, e sono, davvero un fallimento. Perché negarlo?