DUNJA
di
Enzo Barnabà
“L’appuntamento é al bar della piazza della
cattedrale, non c’è dubbio. Le parole bar
e cattedrale pronunciate con il tono
sicuro della ragazzina che gioca in casa le sento come me le stesse dicendo in
questo momento”, pensa Emilio mentre, attraversata la porta principale delle
mura di Cattaro, getta uno sguardo verso l’alto, in direzione dell’orologio
della torre. “Le cinque meno dieci. Fra tre minuti al massimo, se prendo la
strada più breve, ci sarò e mi siederò ad un tavolo all’aperto ad aspettarla.
Ha detto alle cinque, ha aggiunto che avremmo bevuto qualcosa e che poi saremmo
andati a casa sua. Non deve abitare lontano dalla cattedrale”.
“Non
ho preso la strada più breve, cazzo. E dire che le calli di Cattaro pensavo di
conoscerle bene! Adesso dove vado, a destra o a sinistra? Finirà che sarà lei
ad aspettarmi. Non é per i pochi minuti di ritardo che avrò, é che quando mi
affaccerò sulla piazza deserta, lei mi scorgerà da lontano ed io dovrò
raggiungerla al tavolo, impacciato dal suo sguardo indagatore. Sarebbe stato
meglio arrivare un po’ prima. Non mi sarei perso e non mi sarei riempito di
sudore. Non resta che fare buon viso a cattivo gioco. Quando la scorgerò da
lontano, le sorriderò e cercherò di camminare in maniera disinvolta”.
Svoltato
il gomito di una calletta, appare all’improvviso la fiancata della cattedrale
di San Trifone. Dopo pochi rapidi passi, si apre la piazza. I bar sono due,
scopre Emilio con disappunto. In quale sarà Dunja? In quello di sinistra, si
scorge una ragazza china su di un giornale sotto un’enorme ombrellone blu scuro
che ripara un folto gruppo di tavoli. Sarà lei? La ragazza alza lo sguardo ed
Emilio pensa di aver fatto bene a controllare la mano destra che stava
cominciando a muoversi per alzarsi nell’aria in un gesto di saluto. Non é lei.
Dunja é certamente seduta all’altro gruppo di tavoli, quelli che s’intravedono
in mezzo agli ombrelloni verdi. Bisogna attraversare la piazza. Emilio lo fa
con simulata indifferenza, quasi fosse un turista venuto ad osservare il
portale romanico della cattedrale. Adesso, la musica disco diffusa dagli
altoparlanti del primo bar è sostituita dalle canzoni napoletane che provengono
dagli ombrelloni verdi. Emilio guarda in quella direzione per individuare il
tavolo in cui sta seduta la ragazza. Ai tavoli non c’è nessuno. Gli viene come
una fitta nello stomaco che risale verso il petto. Accelera il passo dicendo
che é stupido drammatizzare. Dunja é in ritardo, basta sedersi ad un tavolo,
ordinare un caffè ed aspettare.
“Eppure quando l’ho
conosciuta non avevo questo tipo di reazioni”, si dice aspettando che un
cameriere da dentro il locale si accorga della sua presenza, “era una ragazza
come tante, e neanche tra le più belle, a guardarla così”. L’aveva cominciata a
frequentare per motivi di lavoro e si era subito trovato bene con lei. Sveglia,
preparata, seria ed anche, come lui, un po’ pignola. Poi era scattata come
un’intesa che andava ben al di là del lavoro. Il suo “come sta?” non appariva
formale, sembrava, accompagnato dallo sguardo penetrante, rivelare un reale
interesse. Lui era incuriosito ed attratto da una ragazza che gli si
manifestava come acqua chiara, facendo saltare con naturalezza maschere e
carapaci. Poi si era passati alla fase del feeling. Gli era sembrato
straordinario. Dunja, (si chiamava come la donna di Perzagno di cui Ungaretti
si era riinnamorato da vecchio) malgrado avesse trent’anni meno di lui e fosse
nata e cresciuta dall’altra parte dell’Adriatico, capiva le ragioni del suo
agire e solidarizzava con lui. L’amica di cui aveva bisogno. Le chiese di
passare al tu. La ragazza rispose che la differenza d’età le rendeva la cosa
difficile, ma che ci avrebbe provato.
Il caffè é finalmente
arrivato. Emilio si chiede se berlo o lasciarlo lì sul tavolo, aspettando che
lei arrivi. Guarda l’orologio. Le cinque e venti sono già passate. “Cosa
succede? Potrebbe telefonare, almeno. Sa bene che porto sempre il cellulare con
me”. Guarda l’orologio ancora una volta, nella patetica ricerca di rassicurazione.
Sono proprio le cinque e venticinque, ma verrà da un momento all’altro, é
sicuro. Beve il caffè d’un fiato e lancia un’altra occhiata all’orologio. Si
volta indietro sperando di vederla arrivare dal vicolo che si trova alle sue
spalle. Lo sguardo incrocia quello del cameriere in piedi sulla soglia
dell’ingresso del locale. Ha la sensazione di cogliere un velo d’ironia in quel
volto. Bisogna darsi un contegno, far finta d’ammirare la facciata della
chiesa. Ci prova. Fissa una dopo l’altra le due torri campanarie e poi la
muraglia che si arrampica sulla roccia grigia che incombe sulla città, ma lo
sguardo finisce per cadere a più riprese sul suo polso sinistro. Ogni volta, é
un minuto in più. Sembra una condanna. “E se non ci fossimo capiti sul posto?
Ma certo, a Cattaro c’è pure una cattedrale ortodossa, con tanto di piazza e di
caffè. Dunja é sicuramente lì che mi aspetta. Da mezz’ora, poveretta. Pago il
conto e vado. Ma se é già andata via?”.
La chiesa ortodossa é a due
passi. Sulla piazza antistante, i tavoli di due caffè quasi si mescolano. I
clienti che chiacchierano o ridono prendendo il fresco sono tanti. Emilio spera
che sia Dunja a notarlo per prima. Nessuno gli fa un cenno di saluto. Deve
sobbarcarsi la corvée di osservare
gli avventori uno dopo l’altro stando appoggiato al muro del palazzo gotico
veneziano che si trova di fronte ai bar. Dunja non c’è. Passa ancora una volta
in rassegna i tavoli ed é preso da una fitta allo stomaco analoga alla
precedente. Cosa fare? Istintivamente gli vien fatto di tornare verso San
Trifone. Ha la sensazione di andare a casaccio. Se avesse il dono
dell’ubiquità, si piazzerebbe in entrambi i posti, ma… E’ in questo momento che
sente suonare il telefonino in una delle tasche. Quale? Lo cerca concitato.
Quando lo ha in mano, l’aggeggio ha smesso di suonare. Nulla di grave, basta
cercare tra le chiamate perdute. Macché, sul display appare la scritta “numero
illeggibile”. Dunja deve aver fatto disattivare la funzione dalla società
telefonica. Ma era lei che ha chiamato? Ad Emilio non resta che telefonare.
Fino a quel momento non l’ha fatto perché pensava che toccasse a lei farlo, ma
che importa, basta ricercare il numero memorizzato, premere il tasto verde con
su disegnata una cornetta e sentire la voce di Dunja. Armeggia con le mani
nervose e sbaglia più volte. Si chiede se la voce che giustificherà il ritardo
sarà dolce o brusca, se gli darà del tu o del lei. Cerca di concentrarsi sulle
risposte da dare. Inutile. Una voce metallica annuncia che il telefono chiamato
é fuori servizio.
Adesso Emilio sta seduto a
un tavolo del bar dagli ombrelloni blu. “L’ultimo amore più degli altri
strazia”. Il verso di Ungaretti va e viene dalla sua mente come un leitmotiv da
cui non riesci a liberarti. Ma é amore il suo? No. Forse. Sì, forse sì. Ma di
un tipo del tutto sconosciuto. La fase del feeling, col passar dei giorni, era
andata evolvendo verso lo scambio di emozioni. Avevano preso a prestarsi e a
regalarsi libri e dischi. Dunja agiva con discrezione, non diceva mai,
porgendogli un libro: “Questo mi é piaciuto, vediamo se anche tu proverai le
stesse sensazioni che ho provato io”, ma lui sapeva che il movente era quello.
Vedendola così desiderosa di scoprire nuove cose, Emilio, da parte sua, tendeva
a trasformarsi in una sorta di pigmalione. Quando la incontrava o le telefonava
non mancava si sciorinarle una lista di posti in cui andare, di musica da
ascoltare, di pagine da leggere. Il dialogo, quello profondo, la sola strada
che ti permetta di sperare di uscire dalla solitudine cui l’umanità sembra
condannata.
Quasi contestualmente, aveva
cominciato a scoprire che Dunja era bella, anzi bellissima, molto di più delle
decine di pin-up che incrociava quotidianamente per le strade di Podgorica.
Alcune parti del suo corpo, se esaminate singolarmente (aveva preso
quest’abitudine quando la incontrava), lasciavano forse a desiderare: massiccio
il naso, troppo larga e sottile la bocca, piuttosto tozze le spalle e le
braccia, l’attaccatura contadina dei seni che occupavano l’intero petto, ecc. Nulla
da dire, invece, sui capelli corvini, da vera montenegrina (o siciliana?),
tenuti assai corti, sulle gambe e sulle cosce che s’indovinavano sode e
sontuose. Esemplare era poi la massiccia armonia dei glutei, usciti da un
dipinto di Rembrand. Il corpo di Dunja, tuttavia, andava valutato nella sua
integralità partendo dal volto. Non era possibile, d’altronde, fare altrimenti.
Prima veniva l’intensità dello sguardo, l’espressione luminosa oppure velata
del suo volto, poi il disegno che le braccia formavano nell’aria e così via.
Per lo sguardo che sapesse uscire dalla staticità asfittica per compiere un
esame dinamico, la bellezza di Dunja non aveva rivali.
Emilio aveva cominciato a
vederla in questa dimensione la sera in cui lei aveva risposto a una sua domanda
guardandolo dritto negli occhi, facendogli un sorriso che voleva essere
rassicurante – ma che in realtà penetrava nel fondo del suo animo portandovi lo
scompiglio – e mosso le braccia in un lento gesto d’estrema eleganza. Aveva
pensato al polso del torero. Durante la faena,
tutta l’energia del matador é concentrata nel polso che tiene la muleta. Nel
suo impercettibile gesto vi é più movimento che in una corsa di formula uno.
Era poi andato col pensiero agli occhi di sua madre. Quelli di Dunja erano identici,
e così l’espressione gioiosa che talvolta assumevano. La mamma era poi
diventata la ragazza che non aveva conosciuto, la maestrina che all’età di
Dunja sognava eterni amori in una scuola rurale della Sicilia assolata. Sì, la
montenegrina era la perennità terragna della storia, l’ultimo avatar della statuetta fittile della
Demetra dai possenti fianchi ritrovata nel sacello della fertilità di
Morgantina.
“L’ultimo amore…”. Eppure quel corpo non aveva mai stimolato le
sue fantasia erotiche. Aveva desiderato accarezzarlo quel corpo, guardandola
negli occhi, e far nascere una biunivoca corrente che li avrebbe fatti
sciogliere nella tenerezza. Una sorta di dolce cupio dissolvi. Solo una volta, la cosa stava prendendo una diversa
piega. Erano in riva al mare, all’inizio della primavera. Dunja aveva ricevuto
una telefonata ed era stata presa da una furiosa crisi di rabbia. Ce l’aveva
con se stessa, non aveva saputo diffidare (ed anche in questo gli assomigliava)
di una persona che adesso la stava ferendo. Spento il cellulare, aveva
cominciato a tremare, poi si era tolte le scarpe ed aveva preso a camminare
nervosamente su e giù con i piedi immersi fino al malleolo nell’acqua fredda.
All’improvviso, si era chinata, aveva raccolto dei ciottoli e si era messa a
lanciarli con violenza in direzione del largo. Era sublime. Gli fece venire in
mente i versi che erano stati scritti per la perzagnota sua omonima: “…D’un
balzo, gonfi d’ira / Gli strappi, va snodandosi / Dal garbo della schiena / La
cerva che diviene / Una leoparda ombrosa…”. Sbollita la rabbia, gli si era
venuta a sedere accanto. Lui le aveva preso una mano e gliel’aveva tenuta tra
le sue. Aveva poi affermato che quelle mani potevano essere considerate come la
metafora delle loro personalità: simili le palme - che, sovrapposte,
addirittura coincidevano - e dissimili le dita, affusolate e femminili quelle
di lei, piuttosto atticciate, invece, quelle di lui. Meccanicamente, aveva
portato la mano destra sulla nuca di Dunja ed aveva preso ad accarezzarla con
dolcezza. La ragazza aveva cominciato a fremere in maniera quasi
impercettibile. Emilio stava per portare le labbra verso quella nuca per fare
ciò che abitualmente faceva con le donne (“Iu sacciu dari certi vasunedda /
supra lu coddu accostu a li capiddi / ca fannu li carnuzzi stiddi stiddi…” gli
aveva insegnato Martoglio), ma si era trattenuto. L’aveva ripresa per mano e si
erano allontanati dalla spiaggia. Poi…
- “Scusami per il ritardo, cinque minuti me li perdonerai, spero”, dice la voce squillante di Dunja mentre gli porge la guancia per accogliere un bacio. Sui jeans porta una casacca color malva, un abbinamento perfetto. Il trucco é leggerissimo, come sempre.
- “Ma veramente, ti aspettavo per le cinque”.
- “Ti avevo detto alle sei, l’hai dimenticato? Poverino, mi hai aspettato per più di un’ora. Spero che non ti sia annoiato”.
- “Dai, siediti, bevi qualcosa”.
- “Impossibile. La mamma ci aspetta a casa. Le ho tanto parlato di te. Ti ha preparato un dolce. Ottimo vedrai”.
L’appartamento si trova al primo piano di un palazzo che chiude un campiello che la bora ha trasportato rubandolo a Chioggia. La porta é socchiusa. “Siediti qui”, gli dice indicandogli una poltrona di cuoio non appena entrati nel vasto, antico salotto che si trova subito dopo l’ingresso, “io torno fra un attimo, ma prima vedrai spuntare la mamma da quella porta. La sento armeggiare con il dolce in cucina”.
E’ proprio così. Dalla quinta da cui Dunja é scomparsa da pochi secondi, come al teatro, appare la signora con un vassoio ricolmo tra le mani. Non appena si avvicina, Emilio l’osserva in volto e trasalisce. La donna arrossisce, posa il vassoio sul tavolinetto accanto alla poltrona, si volta di scatto e si precipita verso la porta da dov’era venuta, biascicando uno “scusi”. “Ma é Milica, o Slavica o come diavolo si chiamava la ragazza che ho conosciuto ventiquattr’anni fa al campeggio di Ragusa! Sì é proprio lei, quel viso mite, quello sguardo intelligente ed un po’ triste…”
- “Mia madre non sta molto bene, una specie d’improvviso malessere, non so. Ti prega di scusarla. Farò io da padrona di casa. Assaggia questa fetta e dimmi cosa ne pensi”.
Trascorrono più di un’ora a chiacchierare e ad ascoltare i CD che lei preferisce. Emilio osserva senza essere osservato. Spera che la donna riappaia in salotto.
- “Si é fatto tardi, devo andar via. Puoi dire a mamma che desidero salutarla?”.
- “Non so se sia il caso di disturbarla: si é chiusa nella stanza da letto ad ascoltare delle canzoni preistoriche…”.
- “Insisti, ti prego”.
La porta della stanza si socchiude lasciando uscire le note di “Sapore di sale”. Dunja é già sull’ingresso, pronta a precipitarsi per le scale. Emilio si avvicina alla donna e le sussurra all’orecchio:
- “E’ mia figlia?”
- “Da”, risponde quella chinando verso terra gli occhi smarriti.
Podgorica (Montenegro), giugno 2000