VALGUARNERA COME TRAPPOLA

Quattro lettere di Francesco Lanza

 

 

 

 

 

Valguarnera, 14 maggio 1931

 

 

 

Mio caro Corrado,

come ringraziarti della tua lettera? Non so dirti quanto bene mi abbia fatto. Avevo proprio bisogno d’una pa­rola amica, affettuosa.

Ho potuto conoscere in tutta la sua profondità il tuo cuore, un’amicizia e un affetto che non credevo più di meritare.

Per la mia malattia non ti meraviglierai quando avrai saputo che si tratta d’una vecchia infermità ritor­nata, come un castigo, a farsi vedere. Gli strapazzi, le notti insonni, la cattiva alimentazione, le preoccupa­zioni d’ogni sorta, prepararono lentamente il terreno. La corda era, come si dice, tesa, bastò lo strappo della Russia a romperla. Mi lamento soltanto che essa sia ve­nuta nel momento meno opportuno, quando avevo più che mai bisogno di salute e di serenità: niente di straor­dinario che il mio spirito e il mio morale ne siano stati grandemente scossi. Ho passato momenti terribili (ora ci ho fatto rassegnatamente il callo): se non sono cadu­to a capofitto nella disperazione e nella follia lo devo - per le contraddizioni che ha la vita -  proprio a questa dura pellaccia che non vuoi darsela mai vinta. Ma il male, ormai, quanto del corpo, anzi più, è dello spirito. E un disastro: non posso più lavorare. Il mio cervello è diventato una frittata, direbbe Barilli [Renato Barilli, scrittore conosciuto a Roma]. E que­sto, mentre ho degli obblighi che mi assillano continua­mente e non mi danno pace.

     Che vuoi che faccia in queste condizioni? Quello che dici sulla Sicilia è perfettamente giusto. Devo a questo maledetto paese - dove non si parla che di de­biti, di scadenze, di miseria, e dove tutti stanno alla fi­nestra col fucile spianato pronti a lasciarti andare una schioppettata sul deretano mentre sei per cadere - la maggior parte dei miei mali. Me lo sento pesare sulla testa e mi soffoca. Sono circondato da odiosità vili, da maldicenze, da ripicchi bestiali (non mi diedero i soldi alla banca soltanto per il piacere di farmi una mala parte). Sono sei mesi che non esco - se non per andare nelle buone giornate in campagna - che non parlo con anima viva, se non con quelli di casa, che non apro il cuore a un amico. Qui non conto nulla, l’ultimo dei vil­lanzoni che ha dieci salme di terra vale infinitamente più di me, specialmente ora che mi pesa sul capo una specie di disfatta. Certi giorni mi sono davvero sentito come l’ultimo degli uomini. Il paese si vendica per il solo motivo che l’ho troppo amato. Ma che farci? Or­mai ci sono prigioniero. Anche se riuscissi a trovare mille lire per venirmene a Roma, che potrei fare?

     Se stessi bene, non mi preoccuperei, ma in queste condizioni sarebbe peggio. Le preoccupazioni dell’av­venire, l’impossibilità di lavorare, mi annichilirebbero ben presto. Eppure - altra contraddizione - ho biso­gno, per guarire, per risollevarmi, per riacquistare la fiducia in me stesso, di uscire da questo paese. Invoco su questa accozzaglia di case un lungo interminabile terremoto.

     Potrebbe salvarmi un impiego anche provvisorio, per un anno, per sei mesi, la sicurezza cioè per il tempo necessario a rimettermi. Ma a chi può importare tutto questo? E proprio necessario ch’io sia “salvato”? Sol­tanto nei drammi si usano certe espressioni.

     Ti ringrazio per quello che vuoi fare a mio favore presso Amicucci. Ma è impossibile scrivere articoli. Piuttosto vedi con D’Aroma [Nino D’Aroma, segretario federale romano del Partito Nazionale Fascista] se non è possibile farmi andare anche in Colonia, anche a casa del diavolo, per qualche tempo. Non so che dirai di tutto questo: può darsi anche che ti metta a ridere. Le tragedie non sono più di moda. Ma ti ho aperto, come a nessuno, il mio cuore. Ti prego perciò di non far leggere questa lettera a nessuno, specialmente del genere letterati: ne soffri­rei immensamente.

     Ricevo l’altra tua lettera. Perché rimandarmi la cambiale? Non l’avevo fatto, credimi, per vano ripic­co: ma per sentirmi più tranquillo al riguardo. Tu non sai quanto i debiti — finanziari e morali — opprimano il mio animo. Ad ogni modo, scusami: non ho mai du­bitato della tua amicizia, del tuo cuore fraterno.

     Se ti fa piacere, scrivimi ogni tanto. Dammi qual­che notizia di quel che avviene. Per conto di chi Patti [Ercole Patti, scrittore siciliano]é andato in Giappone? La Fiera [la rivista “La Fiera Letteraria”] pubblicò la tua novella? lo non leggo giornali da parecchi mesi: ricevo solo il «Selvaggio» dove ho visto con piacere di vecchio selva­tico le tue cose. Se scrivi a Maccari [Mino Maccari, redattore della rivista “Il Selvaggio”], digli che mi scusi e spiegagli il perché. Se mi rimetterò, ritornerò selvatico come una volta, gli manderò cioè delle cose da pubblicare. Scusa la lunga e forse inutile tiritera. Scrivimi.

     Ti abbraccio con animo fraterno.

Il tuo

Francesco

 

 


 

 

 

 

20 agosto 1931

 

   Mio carissimo Corrado,

sono anch’io convinto che devo uscire al più presto, e ad ogni costo, da questo infamissimo paese, e farò del tutto per riuscirci. Sto aspettando la venuta da Tripoli d’un mio fratello per aggiustare certe cose d’eredità (naturalmente una miseria) e spero quindi di scappare.

Ti ringrazio dell’affettuoso invito [a Roma]; ma non saprei reggere al pensiero (errato, lo so benissimo) di darti fa­stidio. D’altra parte la mia ex padrona di casa mi aspetta sempre a braccia aperte: nella mia ex camera c’è sempre la mia roba che aspetta il mio ritorno.

Io scrissi nuovamente a D’A. [Nino D’Aroma] per ringraziarlo e tornare alla carica. Nessuna risposta. Ho paura che si sia trattato d’una delle solite promesse platoniche fatte per mettere in pace il proprio animo e l’altrui. Del resto capisco benissimo come sono queste cose: la dimenti­canza, l’impossibilità momentanea d’incontrare o tele­fonare a una persona ecc. ecc.

Però, come sono complicate le mie faccende: un altro a quest’ora avrebbe trovato cento impieghi — Ma, lasciamo correre.

Mi dispiace soltanto ch’io debba seccarti sempre coi miei lagni.

Dimmi soltanto se tu credi opportuno ch’io riscri­va a D’A. — almeno mi dicesse quattro e quattr’otto di andare al diavolo!

Scrivimi — più a lungo io ti scriverò in altro mo­mento più felice di questo.

Ti prego di porgere i miei saluti alla tua signora.

Un affettuoso abbraccio dal tuo

Francesco

 

Grazie pure (s’intende) dell’offerta veramente genero­sa e fraterna (dopo quello che ancora ti devo!) ma t’ho detto già come intendo risolvere la situazione. Scrivimi.

 

 

 


 

 

 

 

Valguarnera, 15 settembre 1931

 

             Caro Corrado,

non sono stato non dico a Roma - più o meno in inco­gnito - ma neppure a un chilometro dalle porte di questo paese. E sarei venuto a Roma senza avvisarti e venire a vederti? Credo che la tua donna abbia travisto, come la portiera avrà frainteso. Tranne che non sia venuto a cercarti mio cugino Giuseppe - quello edito dai Buratti -  al quale parecchio tempo fa diedi il tuo indirizzo: ma questo, in ogni caso, non sarebbe av­venuto di recente.

     Il mio programma è sempre uno: quello di uscire da questa gabbia infernale. Sperare di riuscirci, però, rimettendomi a scrivere come una volta, è vano. Il solo pensiero per ora di dover cambiare la pagina bianca in articolo, novella etc. mi fa venire uno choc nervoso al­la bocca dello stomaco. Credo che sia l’influsso dell’ambiente: e aggiungi che sono certamente jettato.

     Ho anche perduto la speranza di poter riuscire con l’aiuto di personaggi influenti. So ormai che cosa pen­sare di certe promesse, e so che l’uomo conta solo quando può, o dà la sensazione di poter servire a qual­che cosa. Pare che aiutare qualcuno che ne abbia biso­gno sia una fatica più grave delle dodici di Ercole mes­se insieme, specialmente poi quando questo aiuto può salvare un uomo dalla disperazione. Sono curioso di sapere che cosa ti dirà D’A. - dal quale ti prego di re­carti anche per vedere come ha accolto le mie lettere: l’ultima gliela scrissi in questi giorni durante un acces­so di febbre malarica e di terribile sconforto per la de­bolezza nervosa causata da tre giorni di febbre a qua­ranta. Ti prego di dirmi sinceramente quello che ti dirà sul mio conto. Se riuscirai a non fargli sembrare assur­do o impossibile aiutarmi a trovare un benedetto o ma­ledetto impiego (se avessi chiesto la commenda a quest’ora l’avrei già avuta) farai qualcosa come un mi­racolo. Digli che io cerco di risolvere una situazione di­sperata - o che mi sembra tale per le condizioni d’ani­mo e di spirito in cui mi trovo - Non si tratta affatto d’un capriccio. Ma, siamo sempre lì, che cosa conta un uomo quando pare che non serva a nulla? Digli anche a D’A., se è necessario, che l’impiego mi serve soprattut­to per uscire da questo paese e con la fiducia nel pre­sente e nell’avvenire riacquistare quella in me stesso (ma a che cosa possono servire queste ragioni?).

     Io intanto prenderò parte a un concorso bandito in questi giorni dall’Istituto Centrale di Statistica: in caso di riuscita, l’assunzione in servizio avverrebbe en­tro il I Dicembre ‘32: dunque, nella migliore delle ipo­tesi, ci sarebbe la prospettiva di un altro anno di per­manenza in questo paese: qualcosa come andare a fini­re al manicomio (e il principio c’è). Il concorso è per ti­toli: con una buona raccomandazione potrei perciò an­che riuscire, e allora - al momento opportuno, cioè - sarà il caso di far muovere qualche personaggio in­fluente e di venire io a Roma per brigare personalmen­te.

Ma se tu riuscissi a farmi uscire subito da questo paese, quali tormenti non mi risparmieresti! Cerca di riuscirci - e sopratutto di non considerarmi uno scoc­ciatore.

Affettuosi saluti a te e agli altri. Scrivimi, scrivi­mi, scrivimi.

Grazie infinite, naturalmente, del buon pensiero, fraterno, che hai sempre di me.

Francesco

Patti è tornato?

 

 

 


 

 

 

 
Catania, 31 dicembre 1932
 Hotel Sangiorgi

 

Caro Corrado,

mi ero l’altro ieri messo in viaggio per Roma, ma in     treno sono stato colto da una febbre tale che ho dovuto fermarmi all’albergo. Si tratta d’una iniezione suppu­rata con sintomi di setticemia. Per due giorni e due notti ho delirato con la febbre a 41, solo come un cane. Ora la febbre è a 39. Ho telegrafato a parecchi amici vicini, ma tutti si sono limitati ai semplici doveri di cor­tesia. Questa solitudine mi dà una maggiore dispera­zione. Aspetto domani mio fratello per tornare a casa: ricado nella trappola, è proprio il mio destino. Mi sarà molto più difficile ora pensare a partire: sia per i soldi, sia perché non ho più biglietti, e quello che feci non sa­rà certo ancora usufruibile.

In questo albergo da cocottes stanno preparando le imbandigioni per il classico cenone: per fortuna la febbre mi fa sentire tutto il disgusto di questi odori a base di supplì e di brodi. Scrivimi a Valguarnera — e speriamo che anche questa passi.

Il tuo

Francesco

 

 

Francesco Lanza, “Sicilia come trappola. Lettere a Corrado Sofia”, Siracusa, 1989

 

 

[Franceso Lanza sarà trasportato  a Valguarnera dove morrà sei giorni dopo l’ultima lettera scritta all’amico Corrado. Non aveva compiuto 36 anni. Il grassetto del testo così come le precisazioni in corsivo e tra parentesi sono nostri. E.B.]