VALGUARNERA COME TRAPPOLA
Quattro lettere di Francesco Lanza
Mio caro Corrado,
come
ringraziarti della tua lettera? Non so dirti quanto bene mi abbia fatto. Avevo
proprio bisogno d’una parola amica, affettuosa.
Ho potuto conoscere in tutta la sua profondità il tuo
cuore, un’amicizia e un affetto che non credevo più di meritare.
Per la mia malattia non ti meraviglierai quando avrai
saputo che si tratta d’una vecchia infermità ritornata, come un castigo, a
farsi vedere. Gli strapazzi, le notti insonni, la cattiva alimentazione, le
preoccupazioni d’ogni sorta, prepararono lentamente il terreno. La corda era,
come si dice, tesa, bastò lo strappo della Russia a romperla. Mi lamento
soltanto che essa sia venuta nel momento meno opportuno, quando avevo più che
mai bisogno di salute e di serenità: niente di straordinario che il mio
spirito e il mio morale ne siano stati grandemente scossi. Ho passato momenti
terribili (ora ci ho fatto rassegnatamente il callo): se non sono caduto a
capofitto nella disperazione e nella follia lo devo - per le contraddizioni che
ha la vita - proprio a questa dura
pellaccia che non vuoi darsela mai vinta. Ma il male, ormai, quanto del corpo,
anzi più, è dello spirito. E un
disastro: non posso più lavorare. Il mio cervello è diventato una frittata,
direbbe Barilli [Renato Barilli,
scrittore conosciuto a Roma]. E questo, mentre ho degli obblighi che mi
assillano continuamente e non mi danno pace.
Che vuoi che faccia in queste condizioni?
Quello che dici sulla Sicilia è perfettamente giusto. Devo a questo maledetto paese - dove non si parla che di debiti, di
scadenze, di miseria, e dove tutti stanno alla finestra col fucile spianato
pronti a lasciarti andare una schioppettata sul deretano mentre sei per cadere
- la maggior parte dei miei mali. Me lo sento pesare sulla testa e mi soffoca.
Sono circondato da odiosità vili, da maldicenze, da ripicchi bestiali (non mi
diedero i soldi alla banca soltanto per il piacere di farmi una mala parte).
Sono sei mesi che non esco - se non per andare nelle buone giornate in campagna
- che non parlo con anima viva, se non con quelli di casa, che non apro il
cuore a un amico. Qui non conto nulla, l’ultimo dei villanzoni che ha dieci
salme di terra vale infinitamente più di me, specialmente ora che mi pesa sul
capo una specie di disfatta. Certi giorni mi sono davvero sentito come l’ultimo
degli uomini. Il paese si vendica per il solo motivo che l’ho troppo amato.
Ma che farci? Ormai ci sono prigioniero. Anche se riuscissi a trovare mille
lire per venirmene a Roma, che potrei fare?
Se stessi bene, non mi preoccuperei, ma
in queste condizioni sarebbe peggio. Le preoccupazioni dell’avvenire,
l’impossibilità di lavorare, mi annichilirebbero ben presto. Eppure - altra
contraddizione - ho bisogno, per guarire, per risollevarmi, per riacquistare
la fiducia in me stesso, di uscire da questo paese. Invoco su questa
accozzaglia di case un lungo interminabile terremoto.
Potrebbe salvarmi un impiego anche
provvisorio, per un anno, per sei mesi, la sicurezza cioè per il tempo
necessario a rimettermi. Ma a chi può importare tutto questo? E proprio
necessario ch’io sia “salvato”? Soltanto nei drammi si usano certe
espressioni.
Ti ringrazio per quello che vuoi fare a mio favore presso Amicucci. Ma è impossibile scrivere articoli. Piuttosto vedi con D’Aroma [Nino D’Aroma, segretario federale romano del Partito Nazionale Fascista] se non è possibile farmi andare anche in Colonia, anche a casa del diavolo, per qualche tempo. Non so che dirai di tutto questo: può darsi anche che ti metta a ridere. Le tragedie non sono più di moda. Ma ti ho aperto, come a nessuno, il mio cuore. Ti prego perciò di non far leggere questa lettera a nessuno, specialmente del genere letterati: ne soffrirei immensamente.
Ricevo l’altra tua lettera. Perché
rimandarmi la cambiale? Non l’avevo fatto, credimi, per vano ripicco: ma per
sentirmi più tranquillo al riguardo. Tu non sai quanto i debiti — finanziari e morali
— opprimano il mio animo. Ad ogni modo, scusami: non ho mai dubitato della tua
amicizia, del tuo cuore fraterno.
Se ti fa piacere, scrivimi ogni tanto.
Dammi qualche notizia di quel che avviene. Per conto di chi Patti [Ercole Patti, scrittore siciliano]é
andato in Giappone? La Fiera [la rivista
“La Fiera Letteraria”] pubblicò la tua novella? lo non leggo giornali da
parecchi mesi: ricevo solo il «Selvaggio» dove ho visto con piacere di vecchio
selvatico le tue cose. Se scrivi a Maccari [Mino Maccari, redattore della rivista “Il Selvaggio”], digli che mi
scusi e spiegagli il perché. Se mi rimetterò, ritornerò selvatico come una
volta, gli manderò cioè delle cose da pubblicare. Scusa la lunga e forse
inutile tiritera. Scrivimi.
Ti abbraccio con animo fraterno.
20 agosto 1931
Mio carissimo Corrado,
sono anch’io convinto che devo uscire al più
presto, e ad ogni costo, da questo infamissimo paese, e farò del tutto per
riuscirci. Sto aspettando la venuta da Tripoli d’un mio fratello
per aggiustare certe cose d’eredità (naturalmente una miseria) e spero quindi
di scappare.
Ti ringrazio dell’affettuoso invito [a Roma]; ma non saprei reggere al
pensiero (errato, lo so benissimo) di darti fastidio. D’altra parte la mia ex
padrona di casa mi aspetta sempre a braccia aperte: nella mia ex camera c’è
sempre la mia roba che aspetta il mio ritorno.
Io scrissi nuovamente a D’A. [Nino D’Aroma] per ringraziarlo e tornare alla carica. Nessuna risposta. Ho paura che si sia trattato d’una delle solite promesse platoniche fatte per mettere in pace il proprio animo e l’altrui. Del resto capisco benissimo come sono queste cose: la dimenticanza, l’impossibilità momentanea d’incontrare o telefonare a una persona ecc. ecc.
Però, come sono complicate le mie faccende: un
altro a quest’ora avrebbe trovato cento impieghi — Ma, lasciamo correre.
Mi dispiace soltanto ch’io debba seccarti sempre coi miei lagni.
Dimmi soltanto se tu credi opportuno ch’io riscriva a D’A. — almeno mi dicesse quattro e quattr’otto di andare al diavolo!
Scrivimi — più a lungo io ti scriverò in altro momento più felice di questo.
Ti
prego di porgere i miei saluti alla tua signora.
Un
affettuoso abbraccio dal tuo
Grazie
pure (s’intende) dell’offerta veramente generosa e fraterna (dopo quello che
ancora ti devo!) ma t’ho detto già come intendo risolvere la situazione.
Scrivimi.
Caro Corrado,
non sono
stato non dico a Roma - più o meno in incognito - ma neppure a un chilometro
dalle porte di questo paese. E sarei venuto a Roma senza avvisarti e venire a
vederti? Credo che la tua donna abbia travisto, come la portiera avrà
frainteso. Tranne che non sia venuto a cercarti mio cugino Giuseppe - quello
edito dai Buratti - al quale parecchio
tempo fa diedi il tuo indirizzo: ma questo, in ogni caso, non sarebbe avvenuto
di recente.
Il
mio programma è sempre uno: quello di uscire da questa gabbia infernale.
Sperare di riuscirci, però, rimettendomi a scrivere come una volta, è vano. Il
solo pensiero per ora di dover cambiare la pagina bianca in articolo, novella
etc. mi fa venire uno choc nervoso alla bocca dello stomaco. Credo che sia
l’influsso dell’ambiente: e aggiungi che sono certamente jettato.
Ho anche perduto la speranza
di poter riuscire con l’aiuto di personaggi influenti. So ormai che cosa pensare
di certe promesse, e so che l’uomo conta solo quando può, o dà la sensazione di
poter servire a qualche cosa. Pare che aiutare qualcuno che ne abbia bisogno
sia una fatica più grave delle dodici di Ercole messe insieme, specialmente
poi quando questo aiuto può salvare un uomo dalla disperazione. Sono curioso di
sapere che cosa ti dirà D’A. - dal quale ti prego di recarti anche per vedere
come ha accolto le mie lettere: l’ultima gliela scrissi in questi giorni
durante un accesso di febbre malarica e di terribile sconforto per la debolezza
nervosa causata da tre giorni di febbre a quaranta. Ti prego di dirmi sinceramente quello che ti dirà sul mio
conto. Se riuscirai a non fargli sembrare assurdo
o impossibile aiutarmi a trovare
un benedetto o maledetto impiego (se avessi chiesto la commenda a quest’ora
l’avrei già avuta) farai qualcosa come un miracolo. Digli che io cerco di
risolvere una situazione disperata - o che mi sembra tale per le condizioni
d’animo e di spirito in cui mi trovo - Non si tratta affatto d’un capriccio.
Ma, siamo sempre lì, che cosa conta un uomo quando pare che non serva a nulla?
Digli anche a D’A., se è necessario, che l’impiego mi serve soprattutto per uscire da questo paese e con la fiducia
nel presente e nell’avvenire riacquistare quella in me stesso (ma a che cosa
possono servire queste ragioni?).
Io intanto prenderò parte a un concorso
bandito in questi giorni dall’Istituto Centrale di Statistica: in caso di
riuscita, l’assunzione in servizio avverrebbe entro il I Dicembre ‘32: dunque,
nella migliore delle ipotesi, ci sarebbe la
prospettiva di un altro anno di permanenza in questo paese: qualcosa come
andare a finire al manicomio (e il principio c’è). Il concorso è per titoli:
con una buona raccomandazione potrei perciò anche riuscire, e allora - al
momento opportuno, cioè - sarà il caso di far muovere qualche personaggio influente
e di venire io a Roma per brigare personalmente.
Ma se tu riuscissi a farmi uscire subito da questo paese,
quali tormenti non mi risparmieresti! Cerca di riuscirci - e sopratutto di non
considerarmi uno scocciatore.
Affettuosi saluti a te e agli altri. Scrivimi,
scrivimi, scrivimi.
Grazie infinite, naturalmente, del buon pensiero,
fraterno, che hai sempre di me.
Patti
è tornato?
Caro Corrado,
mi ero
l’altro ieri messo in viaggio per Roma, ma in treno
sono stato colto da una febbre tale che ho dovuto fermarmi all’albergo. Si
tratta d’una iniezione suppurata con sintomi di setticemia. Per due giorni e
due notti ho delirato con la febbre a 41, solo come un cane. Ora la febbre è a
39. Ho telegrafato a parecchi amici vicini, ma tutti si sono limitati ai
semplici doveri di cortesia. Questa solitudine mi dà una maggiore disperazione.
Aspetto domani mio fratello per tornare a casa: ricado nella trappola, è proprio il mio destino. Mi sarà molto più
difficile ora pensare a partire: sia per i soldi, sia perché non ho più
biglietti, e quello che feci non sarà certo ancora usufruibile.
In questo albergo da cocottes stanno preparando le
imbandigioni per il classico cenone: per fortuna la febbre mi fa sentire tutto
il disgusto di questi odori a base di supplì e di brodi. Scrivimi a Valguarnera
— e speriamo che anche questa passi.
Francesco
Francesco
Lanza, “Sicilia come trappola. Lettere a Corrado Sofia”, Siracusa, 1989
[Franceso Lanza sarà
trasportato a Valguarnera dove morrà
sei giorni dopo l’ultima lettera scritta all’amico Corrado. Non aveva compiuto
36 anni. Il grassetto del testo così come le precisazioni in corsivo e tra parentesi
sono nostri. E.B.]