IL COCOMERO
di Francesco Lanza
La festa di San Cristoforo era annunziata
dall'arrivo dei coltellinai di Campobasso, dei giocatori di bussolotti, dei
venditori di berretti, di torrone, di pipe di zucchero, di noccioline
americane, di zampogne e di palloncini colorati; dei sonatori ambulanti, degli
storpi che si strascicavano sul di dietro coi guantoni di cuoio e gli appoggi,
le gambe sulle spalle come pezzi ortopedici, il viso atteggiato in smorfie
pietose, lanciando ai passanti invocazioni che straziavano gli orecchi e
facevano diventare il cuore piccino come un cece. Invece di buttar loro un
soldo, per l’anima dei morti, si sentiva la voglia di fuggire. Arrivavano i
cantastorie coi cartelloni a quadri vivaci e impressionanti, dove era narrata
la storia della donna fatta a pezzi e del castigo che toccava infine al marito
infame e feroce, o quella non meno lacrimevole e accessibile ai cuori teneri,
della fanciulla che fu chiusa a viva forza in convento e morì di patimenti e
sospiri, non potendo sposare il giovane amato, il quale molto non passò che per
il crepacuore la seguiva al cimitero. Talvolta capitavano anche quelli del
cosmorama, con la presa di Makallè, l'uccisione della regina Draga, i leoni nel
deserto e il brigante Musolino finalmente ammanettato tra i carabinieri in
lucerna e sottogola: con un soldo c'era da passarci delle ore e struggersi di
meraviglia e di malinconia.
In un momento, sorgevano nella piazza,
allineate come in un accampamento, le tende e le bancarelle: si sentivano le
voci dei giocatori, gli scoppi secchi del tiro al bersaglio, le pause piene di
sottintesi dei « barilotti » e delle vincite, i prezzi, gridati a squarciagola,
dei coltelli, delle striglie, delle scarpe di pelo, delle zappe, delle pistole
di latta, della storia in sestine di Santa Genoveffa o della sedotta
abbandonata.
Nel bel mezzo della piazza o nei
crocicchi, sul capo del venditore, ondeggiava attaccata a uno spago o ad un
bastoncino, l'efflorescenza delle zampogne e dei palloncini colorati, pronta ai
nostri occhi a volarsene da un momento all'altro in aria, nel magico cielo
festivo. Si vedevano canestri pieni, mucchi di calia e di noccioline americane
che erano continuamente presi d'assalto e smantellati. Pareva che la festa
fosse fatta apposta per questo: anche le ragazze, affacciandosi sull'imbrunire
ai balconi, mentre i giovanotti passavano col semprevivo all'occhiello, si
mettevano dolcemente a sgranocchiare coi loro dentini bianchi di topo,
lasciando cadere giù con attenzione le bucce. Erano solenni mangiate, e la sera
in piazza sembrava di camminare sui resti d'un saccheggio, a ogni passo si
sentivano scricchiolare gusci e ceci calpestati.
Ma il più bello erano i cocomeri. Se ne
vedevano da ogni parte a cataste; in un angolo davanti la chiesa c'era per tre
giorni di seguito una vera montagna di cocomeri che si vendevano all'incanto e
non finivano mai, piccoli e graziosi come bocce, enormi e mostruosi come i
palloni che si facevano volare al passaggio del Santo. I cocomerai si sgolavano
dalla mattina fin dopo la mezzanotte, tagliavano fette rosse come fuoco coi
coltellacci, facevano tasselli e vendevano con mille allettamenti a peso o a
colpo. Uomini e donne se ne stavano là davanti impalati a godersi la scena e a
lasciarsi prendere pian piano dal desiderio. Bastava sopratutto che un bambino
piagnucolasse o alla bella lucessero gli occhi, e il più lesto o il capo della
partita s'avanzava facendo di gomiti, sceglieva lungamente nel mucchio con
l’aria di chi se ne intende, contrattava in men che si dica e tornava col cocomero
in alto fra le mani o sotto il braccio. Si andava subito da canto: coltello
alla mano si facevano le parti; e ognuno con la sua fetta fiammante ci si
strofinava tutta la faccia che diventava lustra e gocciolante, le donne con
quelle righe rosee e dense giù per la bianca gola e il seno di gala con le
perline, le collane, i crocifissini d'oro e i garofani. I fazzolettini poi, col
merletto intorno a pizzo, piccoli come ali d'uccelli, parevano inzuppati
nell'alchermes. La festa a un certo punto era proprio questa, come la calia e
le noccioline: specialmente la giornata del Santo, anche per i meno ghiotti ci
doveva essere alla fine del pranzo solenne il cocomero in tavola, come
conclusione. Quanto più grosso possibile, simile a un mappamondo, il « porcellino
d'acqua », come lo si chiamava, se ne stava in molle fin dalla mattina: gli si
girava intorno, non pareva mai l’ora di vedercelo squartato davanti con la sua
polpa spugnosa e rugiadosa che si fondeva dolcemente fra le labbra. Era un
tripudio, finalmente, portarlo in tavola, sventrarlo delicatamente, farne tante
fette quanti eravamo; riempirsi con golosità, prima che la bocca, gli occhi di
tutto quel rosso che rallegrava la mensa.
Il divertimento maggiore era all'ultimo,
quando nel colmo della festa i cocomeri calavano giù a prezzi di liquidazione e
andavano a ruba. Allora era uso, specialmente di certe compagnie, farsene
scorpacciate fuor del paese, che restavano famose. Si vedevano a una cert'ora
passare alla spicciolata, con mastodontici cocomeri scelti apposta, che
facevano voltar la gente. Poi si parlava lungamente delle battaglie che ne
erano seguite a colpi di bucce, del gran divorare, del sacco che se n'era
fatto.
Rientrato il Santo, dopo il fuoco
d'artificio, si masticava stancamente l'ultima calia, le ragazze coi loro dolci
profili d'uccello guardavano intorno disfatte e come deluse, con la ciocchetta
di cedrina e i garofani appassiti sul cuore, i bambini s'addormentavano in seno
alle mamme, alcuni tenendo ancora fra i
labbri socchiusi il capezzolo, e mentre la banda sonava in piazza le ultime
musiche, e gli ultimi bengala si consumavano lacrimando, non si vedeva l’ora di
andarsene a dormire, sfiniti, con la bocca amara e la tristezza nel cuore.
***
Se avevo un desiderio allora era quello di
andare coi « grandi » a mangiare il cocomero la sera di San. Cristoforo, fuor
del paese; di partecipare a quel tanto di misterioso e di memorabile che aveva
l’ingenua bisboccia, soltanto per far onore anch'io alla festa, trovarmi in
quella mischia a colpi di bucce, che era il più bello.
La schiera di Nino, perché c'era lui, era
ai miei occhi la più celebre; ma, alto un palmo com'ero, non mi ci volevano
mai. Se riuscivo a mettermici in mezzo senza parere, al momento buono, quando
comprato il cocomero, il più maiuscolo che ci fosse, bisognava incamminarsi, mi
cacciavano via, e se le buone non bastavano, erano scappellotti. Fermo in mezzo
alla strada e sul punto di piangere, li guardavo allontanarsi con invidia, il
piacere che m'era negato prendeva nella mia immaginazione proporzioni
ineffabili che mi facevano perdere quello complessivo della festa.
Una volta, finalmente, mi fu concesso
d'accompagnarli. M'ero attaccato loro dietro come un cucciolo, mi si doveva
leggere così chiaramente negli occhi il desiderio che non osavo più esprimere,
che Nino mi prese per la mano e disse agli altri che sarei andato con loro.
Serio, non dissi una parola, ma mi sentivo tremare dalla gioia. Poiché
s'intendeva che non pagavo come gli altri quel soldo o due per la spesa, in
cambio avrei portato io il cocomero. Mi permisero anche questo. Era il più
grosso porcellino d'acqua che si fosse mai visto; un vero pallone mi stava
appena fra le braccia: lo portavo trionfalmente; rispondendo con uno sguardo di
sicurezza alle raccomandazioni che m'erano fatte, tutto compreso e deciso a
mostrarmi degno della partita. Si faceva sera, e sparavano già i primi
mortaletti: davanti a me i “grandi” cianciavano e ridevano allegramente. Li
sentivo parlare di donne, dei nomi conosciuti mi giungevano all’orecchio:
rivedevo secondo il discorso il viso rosso e rustico come una cipolla di Rosa,
la serva dei nonni, il dolce sguardo di mucca di Michela, la venditrice di
cicoria selvatica, gli occhi verdi come un fondo di maiolica di Amina, la
figlia del segretario comunale; e intanto pensavo con delizia alla grossa
fetta, al bel pezzo di polpa che nel far le parti mi sarebbe certamente
toccato.
Passato il paese, s'andava verso il
convento; quelli, come non curandosi più di me, allungavano il passo, correvano
quasi, cominciando a sbizzarrirsi. Il peso ormai mi opprimeva, ma non volevo
darlo a vedere, cercando bravamente di tener loro dietro. Prima di arrivare, la
strada si faceva d'un tratto in discesa: lentamente le braccia mi mancarono,
gettai un grido, cercai di riprendermi, trattenere il cocomero che mi sfuggiva
da ogni parte, e cadendo a bocconi lo sentii con terrore andar giù ruzzoloni,
rimbalzare, passare tra le gambe di quelli avanti e infine schiantarsi in fondo
come una frittata. Vidi confusamente qualcuno corrergli appresso; alle risate
seguirono delle grida, voci infuriate che accrebbero il mio smarrimento; nello
stesso tempo che una mano mi rialzava, quella di Nino, l’altra mi faceva
piovere fitti fitti un seguito interminabile di scappellotti. Scoppiai a piangere,
ma non per questo. Sentivo un'oscura umiliazione, un senso di rimorso come per
una colpa illogica e irreparabile che mi stringeva il cuore.
Senza riconoscere ingiusto il castigo, con
violenti singhiozzi. gridando a squarciagola, cercai lungamente di scusarmi,
non sperando tuttavia, con segreta voluttà, d'essere creduto.
Ormai, il divertimento era finito per
tutti. Il cocomero s'era ridotto in una poltiglia, di cui non si poteva più far
conto, e Nino, maledicendo alla debolezza che l'aveva persuaso a condurmi con
loro, scaraventava a pedate lontano i pezzi qua e là rimasti. Decisero, per
rifarsi del piacere perduto, di tornare in paese a comprarne uno ancor più
grosso e bello di quello, che a quanto si poteva vedere era una meraviglia, con
la polpa densa e vivida come il fuoco; ma senza più ragazzi dietro, che
avrebbero guastato la festa.
Io singhiozzavo ancora, soffocatamente; e
in paese, prima che essi me lo dicessero, li lasciai quasi alla chetichella,
avvilito e sconsolato, con la puerile disperazione d'aver perduto un bene
inesprimibile e averlo guastato agli altri. Come un'anima in pena, solo, tra la
folla festiva, in quel fantastico tremolìo di luci sospeso nel velo delle mie
lacrime, sentii la festa senza scopo, assurda e irreale.
Francesco
Lanza, Il Tevere, 14 settembre 1929